Ciao, tu. I nostri figli, ascoltando gli adulti, faticano a dare del “Lei”
Aver sdoganato il “tu” non è una colpa grave. Ma lo è nella misura in cui, ancora una volta, il cambiamento taglia di netto la consapevolezza con cui dovrebbe essere accompagnato.
C’è stata un’epoca, ormai lontana secoli e secoli, in cui la conversazione era ritenuta un’“arte” ed esistevano modi diversi di rivolgersi all’interlocutore, a seconda delle circostanze. Era il tempo antico dei pronomi di cortesia: del “Lei”, del “Voi” e perfino del pomposo “Ella”.
Oggi dilaga il “tu” quasi in tutti gli ambienti: al supermercato, per la strada, al bar, negli uffici, sui social e anche a scuola. Non è il “tu” all’inglese, che peraltro è modulato da sottili sfumature linguistiche, ma proprio il nostro italianissimo “tu”, usato in precedenza soltanto in famiglia o fra gli amici.
I nostri figli, ascoltando gli adulti, faticano a dare del “Lei”. In effetti, alla primaria danno del tu alle maestre e a tutto il personale scolastico. Faticano poi a cambiare registro alla scuola secondaria di primo grado, dove non di rado occorre dedicare le lezioni di inizio anno proprio a insegnare ai nuovi alunni l’uso del “Lei”, corredato da spiegazioni varie che riguardano l’utilizzo dei diversi saluti dal “ciao”, al “buongiorno” al “salve”.
Qualche anno fa Umberto Eco dedicò una lectio magistralis, intitolata “Tu, Lei, la memoria e l’insulto”, proprio alla progressiva scomparsa di un certo formalismo. Attraverso un interessante excursus di carattere storico e risalendo alle origini dell’uso dei diversi pronomi, Eco precisava che “il problema del Tu generalizzato non ha a che fare con la grammatica ma con la perdita generazionale di ogni memoria storica”.
Il modo di rivolgersi all’interlocutore, infatti, non è semplicemente una questione di cortesia o di educazione. Il nodo ha una valenza culturale e appunto storica. Le nuove generazioni hanno sempre meno contezza del passato, lo testimoniano epocali gaffe fatte da giovani concorrenti in popolari quiz televisivi, poi divenute dei comici tormentoni. D’altronde, spiegava Eco già qualche anno fa, “una volta ci interessavamo molto al passato perché le notizie sul presente non erano molte, se si pensa che un quotidiano raccontava tutto in otto pagine. Con i mezzi di massa si è diffusa un’immensa informazione sul presente, e si pensi che su Internet posso avere notizie su milioni di cose che stanno accadendo in questo momento (anche le più irrilevanti)”.
Quindi la scomparsa dell’utilizzo dei pronomi di cortesia segnano un vero e proprio passaggio culturale. Si tratta di una evoluzione?
Qualcuno afferma che il pronome “Lei” soprattutto nelle aule tende a marcare la distanza tra adulti educatori e giovani studenti. Ancora una volta, un po’ come nella questione dell’abbigliamento a scuola, si rischia di prendere un granchio. Non sono certo i pronomi a far sentire gli studenti meno accolti e meno compresi dai docenti e dal personale scolastico. Un certo linguaggio è indispensabile per ridisegnare i confini dei ruoli e a sottolineare il rapporto pedagogico docente-discente. La distanza si accorcia attraverso l’empatia e l’ascolto attivo che ciascun insegnante dovrebbe destinare ai propri studenti, di sicuro non tramite la scorciatoia di un “tu”.
Aver sdoganato il “tu” non è una colpa grave. Ma lo è nella misura in cui, ancora una volta, il cambiamento taglia di netto la consapevolezza con cui dovrebbe essere accompagnato.
Il vulnus quindi è sempre lo stesso: la mancanza di consapevolezza, tratto dominante dei giovani dei nostri tempi che sono brillanti e intelligentissimi, ma non sempre centrati sulla realtà. D’altronde, l’uso del “tu” indiscriminato è stato favorito soprattutto dagli adulti, sedotti dalla chimera del giovanilismo e facili vittime di un certo narcisismo. Sentirsi dare del “tu” pur avendo i capelli ormai grigi, aiuta senz’altro a pensarsi più “inclusi” nel tempo presente così negligente, indifferente e persino crudele nei confronti del passato.