Brexit, tempo (quasi) scaduto. E i Ventisette cominciano a scalpitare
A dieci giorni dal possibile recesso del Regno Unito dalla "casa comune", a Londra non si intravvedono ancora schiarite politiche. La premier Theresa May parteciperà il 21 e 22 marzo al Consiglio europeo a Bruxelles, durante il quale potrebbe chiedere un rinvio del "divorzio". E mentre a Westminster manca una precisa linea politica che guardi al futuro, in sede Ue si respira un clima poco propenso verso i britannici
(Bruxelles) “Prima di prendere una decisione su un possibile slittamento, bisogna chiedersi: prolungare la trattativa per fare cosa?”. È estremamente pratico Michel Barnier, capo negoziatore Ue per il Brexit, dinanzi a quanto sta avvenendo a Londra. Governo e Camera dei Comuni non riescono a venire a capo della situazione creatasi con il referendum del 23 giugno 2016 e, dopo aver stabilito che il Regno Unito avrebbe lasciato la “casa comune” il 29 marzo 2019, ora sembrano intenzionati a mandare a Bruxelles la premier Theresa May con “il cappello in mano” – come si usa dire – per domandare un posticipo del divorzio tra i Ventisette e l’isola, sempre più isolata.
E qui s’impone la domanda di Barnier: ma cosa vogliono davvero i politici inglesi?
A dieci giorni dal recesso, lo speaker della Camera, John Bercow, sorprendendo tutti, ha spiegato che non ci può essere un terzo voto del Parlamento sull’accordo negoziato con Bruxelles se il testo non presenterà “modifiche sostanziali e non formali”. Si tratta dell’accordo definito dal governo May con l’Unione europea e già bocciato due volte a Westminster: un doppio smacco che dimostra come il governo conservatore, diviso al suo interno, su questo tema cruciale non ha una maggioranza in parlamento (mentre l’opposizione laburista non sa indicare una reale via d’uscita alternativa). È stato il procuratore generale, Robert Buckland, a parlare addirittura di “grave crisi costituzionale”.
Ebbene, dal fatidico referendum di tre anni fa, quando a strettissima maggioranza i britannici decisero di voler lasciare l’Unione, a Bruxelles si sono contate – se il taccuino del giornalista non inganna – almeno una cinquantina di riunioni di altissimo livello per mettere nero su bianco l’accordo di recesso. Riunioni del Consiglio europeo, infinite sedute dei ministri dei 28, superlavoro alla Commissione, innumerevoli dibattiti e votazioni al Parlamento europeo, estenuanti trattative fra i rappresentanti diplomatici. Tutto ciò ha comportato un appesantimento della macchina politica Ue – in un frangente già di per sé complicato da altre urgenze – al solo scopo di accondiscendere ai desiderata d’oltre Manica.
Ma ora, lo si percepisce girando per i corridoi brussellesi, la misura comincia a essere colma e il nuovo appuntamento “bloccato” dalla faccenda-Brexit, ossia il Consiglio europeo del 21-22 marzo, svia nuovamente l’attenzione della politica comunitaria da argomenti che certamente stanno più a cuore ai cittadini dell’Unione: la ripresa economica, la risposta alle migrazioni, la lotta al terrorismo, lo sviluppo di una politica energetica, il contrasto al cambiamento climatico, il sostegno all’agricoltura e all’allevamento, gli accordi commerciali con i grandi player internazionali, i nodi della politica estera, la costruzione di un vero “pilastro sociale europeo”, e così via. E ancora in questi giorni le istituzioni Ue son dovute correre ai ripari rispetto a un possibile “no deal” a salvaguardia dei giovani che frequentano l’Erasmus+, dopo aver adottato misure simili in svariati altri settori.
Rimane la certezza che i cosiddetti brexiteer, dopo aver convinto – con ragioni nazionaliste – i sudditi della regina a lasciare l’Ue, ora dimostrano la capitolazione del nazionalismo e della presunta autosufficienza inglese.
Forse di qualunque autosufficienza, in un mondo tanto complesso, dinamico e carico di sfide provenienti da attori globali del calibro di Cina, India, Stati Uniti, Russia, Brasile, Messico, Sudafrica, Giappone e via di questo passo.
E se il capogruppo dei Popolari al Parlamento europeo, Manfred Weber, ha parlato di “fallimento della classe politica inglese”, l’ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi, ha osservato: “Pensavo che nei negoziati avremmo visto il Regno Unito compatto contro una Ue divisa, mentre ora abbiamo un Regno Unito diviso e un’Europa unita”, e “le divisioni interne” a Londra “sono molto profonde”.
Volendo guardare avanti, quali passi attendersi, o augurarsi, sul Brexit? Coerenza e orgoglio nazionale vorrebbero da parte inglese un recesso purchessia. Un coraggioso “no deal”. Per poi, dal 30 marzo, tornare al tavolo negoziale con meno boria e più miti consigli… Ma i rischi – in ambito economico, sociale, politico – del “no deal” sono troppo elevati, sia sul fronte britannico che su quello europeo. Ci si può attendere, piuttosto, la strada del rinvio, che lascerebbe trasparire una ritrovata saggezza in campo inglese, cui dovrebbe corrispondere altrettanta pazienza dai Paesi Ue. Augurandosi, fra l’altro, che tra i Ventisette non prevalga uno spirito di rivalsa.
Infine, emerge un doppio monito ai politici e ai cittadini europei.
Ai primi non sarà sfuggito che se un membro dell’Ue lascia la “casa” occorrerà verificarne le ragioni, che magari risiedono nella necessità di riformare la stessa Ue. Ai secondi, i cittadini, il dovere di spalancare gli occhi; il voto del 23-26 maggio per il rinnovo dell’Europarlamento si avvicina: gli elettori vorranno premiare altre forze nazionaliste (o sovraniste), con lo stesso Dna e il volto sconfitto dei brexiteer, oppure sceglieranno chi all’Ue crede, pur nella necessità di riformarla e rilanciarla?