Ancora guerra in Congo, tra predazioni locali e concorrenze globali
Nuova crisi umanitaria nella Repubblica democratica del Congo
Nuova crisi umanitaria nella Repubblica democratica del Congo. Nel Kivu acqua e cibo cominciano a scarseggiare tra gli sfollati. Detto così, sembrerebbe che la quiete congolese sia stata interrotta a Goma dai miliziani dell’M23. Invece conflitti e violenza lì sono la norma. I milioni di morti conteggiati dalle guerre degli anni ’90 a oggi sono la tragica costante dei conflitti interetnici intersecati dagli interessi predatori dei gruppi armati (oltre cento) che si contendono l’estrazione di oro, diamanti e le materie prime strategiche (cobalto, coltan, rame, uranio, ecc.) alla base delle nostre transizioni digitali, energetiche e via dicendo.
Ora però si paventa l’innesco di un’ulteriore guerra ad alta intensità. Presa Goma, l’M23, con l’inconfessato supporto del Ruanda, dice che proseguirà fino alla capitale Kinshasa, per rovesciare il governo. Di sicuro punta al resto del prezioso distretto del Kivu. La Turchia, coltivando il suo peso africano, si propone per la mediazione, ma è stato già respinto il tavolo negoziale suggerito dal Kenya, mentre a dicembre è saltato quello allestito in Angola nel tentativo di moderare lo scontro di lunga durata tra governo e guerriglieri, rilanciato da questi ultimi dal 2023.
Il presidente congolese Tshisekedi ha chiamato alla mobilitazione generale, pur patendo le fragilità e i contrasti nelle forze armate. Un conflitto allargato potrebbe trascinare altri Stati della regione, chi per timore di reazioni a catena al loro interno, chi per strappare altri ricchi territori, replicando le dinamiche delle guerre esplose dal 1996 in poi. A eccitarsi sarebbero anche altre milizie ribelli che flagellano internamente il Congo. In alternativa, il conflitto potrebbe circoscriversi al Kivu, con effetti catastrofici per i civili bloccati sotto il fuoco incrociato.
Prima che agli scenari possibili, serve guardare ai moventi attuali. L’M23, nato nel 2012 come espressione dell’etnia tutsi, accusa il governo di appoggiare le prevaricazioni perpetrate dagli hutu. Sulla spallata a Goma forse ha influito il rinnovo per un altro anno del mandato Onu ai caschi blu della Monusco, rinviando la smobilitazione. Il presidente ruandese Kagame respinge i dossier sui suoi finanziamenti al gruppo ma rivendica il diritto di difesa dal Fdlr, organizzato dai guerriglieri hutu spostatisi in Congo quando la minoranza tutsi, vittima del genocidio del 1994, prese il potere con il Fronte patriottico guidato da Kagame e sostenuto dall’Uganda.
Ma c’è altro. Il Ruanda, privo di miniere, deve buona parte del pil ai minerali congolesi illegalmente estratti e tradotti oltre confine. Adesso la politica dei “due forni” di Tshisekedi ne minaccia i proventi: profittando della concorrenza tra investitori cinesi e statunitensi, Kinshasa va negoziando condizioni di maggior favore con Pechino Washington, puntando su industrializzazione, infrastrutture e controllo del territorio. Ciò taglierebbe fuori gli interessi ruandesi, spiegando i ritorni che il governo di Kigali ricaverebbe dalla destabilizzazione in un Congo da cui allontanare capitali e progetti esteri.
Durante la dittatura di Mobutu (1965-1997), il Paese fu sotto prelazione occidentale. Chiuso il bipolarismo Usa-Urss, deposto il regime sguarnito dell’ombrello antisovietico, Kabila aprì alla Cina, giunta negli anni a surclassare gli investimenti dall’Occidente, pompando capitali e realizzando opere per ostentare un atteggiamento cooperativo sulla scia del maoismo terzomondista. Ma oggi gli Stati Uniti, in risposta ai rami africani delle Vie della Seta, mettono in cantiere il Corridoio di Lobito: 1300 km di ferrovia per collegare le economie tra Zambia e Angola via Congo.
Le proteste sulle vie di Kinshasa e i recenti assalti alle ambasciate mostrano i sospetti popolari sulle collusioni occidentali con il Ruanda, quale agente agitatore ingaggiato in funzione anticinese. La piazza recrimina la predilezione dell’anglosfera per Kigali, certificata da Kagame con l’adozione dell’inglese a lingua ufficiale. Al che si aggiunge il memorandum con l’Ue per la raffinazione sostenibile dei minerali, di fatto però predati in Congo.
Eppure, ancora sulla traccia del “cui prodest”, si troverebbe anche una spiegazione speculare, con la Cina interessata a contrastare il ritorno di fiamma statunitense, suffragata dal rifiuto del Ruanda di partecipare a triangolazioni infrastrutturali con Congo e Usa, in cambio di una stretta sull’M23.
D’altronde è possibile che le rivalità tra Usa e Cina si elidano, lasciando che la partita sia tutta locale, in attesa di gestirne gli esiti (business is business) ma senza soffiare sul caos foriero di incognite. Al netto delle accuse, il senso della protesta a Kinshasa si riassume in uno dei suoi slogan: “Goma comme Gaza”. Un misto di rabbia e timore per l’inerzia e per i doppiopesismi imputati ai maggiorenti della cosiddetta “comunità internazionale”. Complici l’indifferenza e le omissioni interessate, riservate ai drammi africani troppe volte, troppo a lungo.
Giuseppe Casale*
*Scienze della pace – Pontificia università Lateranense