25 marzo, il Dantedì. Un esule di pessimo carattere autore di un poema universale
Il Dantedì, la giornata nazionale che sarà dedicata ogni anno, il 25 marzo, al sommo poeta fiorentino è l’occasione per riscoprire un autore vivo e attuale
Dante come un personaggio vivo e non solo come una mummia letteraria da studiare e venerare: a cogliere la sfida lanciata da “Dantedì”, la giornata nazionale che l’Italia intende dedicare ogni anno, il 25 marzo, al grande fiorentino è Giovanni Ponchio, una vita spesa a insegnare lettere e filosofia, con una predilezione per questo poeta a cui ha dedicato un saggio fresco di stampa, Il volo di Gerione. «L’Alighieri – sostiene – per capirne la grandezza va letto non solo come un raffinato letterato, ma anche nel suo contesto storico-filosofico. Da questa prospettiva è autore di un messaggio di straordinaria attualità da almeno due punti di vista. Anzitutto ci riporta a una visione olistica della realtà, si propone di fare sintesi dei diversi saperi stabilendone il rapporto reciproco in funzione di una visione generale, universale del mondo. E questo è particolarmente importante in un’epoca come la nostra che è tutta spezzettata, in cui i saperi sono superspecializzati e si tende a perdere la visione d’insieme».
Un’altra lezione affascinante di Dante, secondo Ponchio, è la sua capacità di metterci di fronte a una scrittura che non si ferma alla superficie, al senso letterale, ma va aldilà, diventando un trampolino di lancio verso qualcosa che trascende la mera lettera scritta in quanto tale. Questo modo anagogico di vedere la scrittura e la realtà ci consente di vedere come le cose e i nomi che le designano non vadano definiti in un’unica dimensione, ma decodificate in diverse dimensioni, oltre a ciò che è percepibile con i sensi.
Non sono cose nuove, ma ereditate dalla grande tradizione del pensiero cristiano medievale, che il poeta porta non solo alla teorizzazione ma, e questa è la sua grandezza, a una appassionata autenticità di espressione.
Ma Giovanni Ponchio non si è limitato a insegnare Dante ai ragazzi delle superiori; accingendosi alla lunga fatica di scrivere il suo saggio sul Dante “padovano” ne ha fatto anche un compagno di viaggio da ascoltare e frugare per scoprirne il volto profondo. Ecco da dove nasce il suo desiderio «di ricordare Dante facendolo uscire dallo schematismo scolastico. A guardare bene la sua vita si potrebbe cogliere il lato perdente di un personaggio dal pessimo carattere, un esiliato dalla sua città che non riesce a trovare pace in nessuna corte italiana, perché anche da Cangrande della Scala, a cui pure dedica l’ultima cantica della Commedia, se ne va facendo capire, in uno degli ultimi scritti a lui dedicati, di non essere tanto contento del trattamento riservatogli. Dante vive questa sua tragedia personale sempre alla ricerca di un equilibrio, di una stabilità economica che non trova mai, eppure da questo tipo di esperienza riesce a elaborare un significato morale, esistenziale, simbolico straordinario. E questa differenza tra la povera vita che conduceva, senza essere riconosciuto come grande poeta (come invece accade al padovano Albertino Mussato incoronato d’alloro) e la grandezza della sua opera. È un personaggio che patisce la condizione di chi sa “come sa di sale lo pane altrui” ma riesce a sublimare questa sua esperienza disgraziata in un poema universale, facendo diventare la sua povera esistenza un messaggio che travalica il tempo e lo spazio».
Questa esperienza autobiografica trasfigurata si scorge in particolare, secondo la lettura offerta da Giovanni Ponchio, nei canti centrali delle tre cantiche: l’incontro con Gerione e gli usurai nel “cuore” dell’Inferno, il dialogo con Marco Lombardo, dai critici considerato l’alter ego del poeta, nel Purgatorio e il lungo colloquio con l’antenato Cacciaguida che si estende dal 15° al 18° canto del Paradiso. In contrasto con quanto sosteneva Pietro d’Abano, medico e astrologo, concettualmente presente nella Commedia seppur mai nominato, secondo cui il destino degli uomini è scritto nelle stelle, per Dante ogni persona, seppur plasmata nelle sue diverse inclinazioni dagli influssi astrali, ha la possibilità di scegliere tra bene e male, esercitando liberamente la sua volontà capace di sottomettere gli istinti naturali.
Una tesi originale. Padovani, colpevoli di false promesse?
Sul “malanimo” di Dante verso Padova, come recita il sottotitolo dello studio di Giovanni Ponchio Il volo di Gerione (Edizioni La Gru, pp 206, euro 16,00), sono state avanzate molte ipotesi. Sostenute da pochi fatti biografici: non si sa nemmeno se e quando il poeta venne nella città in cui Giotto stava affrescando o aveva affrescato la cappella dell’Arena, su commissione dei figlio di quello stesso usuraio, Reginaldo Scrovegni che l’Alighieri condanna all’Inferno insieme a un “collega” ancora vivo: Vitaliano del Dente. Se i fatti sono pochi, abbondano gli indizi, contenuti nella stessa Commedia, e da questi Giovanni Ponchio parte per inoltrarsi con un raffinato metodo indiziario nel labirinto delle credibili probabilità. Dante ce l’aveva con Padova, questo è certo, al punto da rovesciare due dei suoi “miti”. Quello del fondatore Antenore, di cui era appena stata “scoperta” la tomba, trasformato da eroe fondatore a prototipo dei traditori della patria al punto da dare il suo nome alla landa gelata dei traditori, nell’inferno più profondo, Antenorea. E quello del dio guaritore delle terme, Gerione, mostro simbolo d’inganno, della fraudolenza: “Ecco la fiera con la coda aguzza che passa i monti e rompe i muri e l’armi. Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!”.
L’ipotesi enunciata dall’autore è suggestiva: Vitaliano del Dente, uno degli uomini più ricchi della Marca trevigiana, aveva dato in sposa la figlia a Bartolomeo della Scala, presso cui Dante viveva intorno al 1303. Bartolomeo muore nel 1304 e Vitaliano vuole indietro la figlia e la dote; si apre quindi un contenzioso tra il padre e gli eredi, che sembra abbiano dovuto cedere la donna e i soldi. L’ipotesi di Ponchio è che Dante abbia accompagnato a Padova la vedova e che sia stato indotto ad aiutare Vitaliano nelle sue rivendicazioni dalla promessa di trovargli un posto all’interno dello studio patavino. Questo gli avrebbe consentito di vivere al riparo dalle temperie di una vita da esule. Sennonché, giunto a Padova, il poeta si rende conto che il progetto non si realizzerà, forse perché Vitaliano e Reginaldo l’avevano ingannato fin dall’inizio sulle loro intenzioni, forse perché non poterono mantenere la promessa per l’opposizione dell’ambiente preumanistico padovano, contrario all’impostazione culturale dantesca.
Un preumanesimo rappresentato da due personaggi illustri, di cui nella Commedia non si parla mai e che pure appaiono in controluce nei suoi versi. Albertino Mussato, il poeta coronato d’alloro dal comune padovano, imparentato con Vitaliano che elogia nelle sue Cronache, la cui tragedia “senechiana” su Ezzelino da Romano veniva letta pubblicamente ogni anno. E poi Pietro d’Abano, propugnatore di quel determinismo astrale che Dante confutò nella sua opera. Entrambi, Albertino e Pietro, «pensano e agiscono come se Dio non esistesse. Il loro determinismo separa l’uomo e il mondo da Dio e assegna alla ragione umana la possibilità di conoscere, in modo del tutto autonomo, le leggi dell’universo».
Insegnamento e impegno sociale e politico
Giovanni Ponchio ha insegnato per 41 anni letteratura italiana, storia e filosofiia nelle scuole superiori padovane; dal 1991 al 2001 ha diretto la scuola di formazione all’impegno sociale e politico della diocesi e, per conto della Cei, è stato coordinatore delle scuole di formazioni italiane. Dagli anni Novanta è presidente del consorzio Biblioteche padovane associate. Sta attualmente lavorando a una pubblicazione sul movimento cattolico di inizio Novecento a Padova, nel periodo del vescovo Luigi Pellizzo.