Una responsabilità condivisa. L’Italia (in realtà nessun altro Paese sviluppato) non può reggere un altro lockdown di due-tre mesi
Dobbiamo tutti abituarci – riabituarci – all’idea che si possa vivere più o meno normalmente senza però accalcarci come sardine in un centro commerciale.
Non invidiamo nemmeno un poco chi – a livello nazionale, regionale, addirittura comunale – è chiamato a prendere decisioni che si devono barcamenare tra due esigenze primarie: la salvaguardia della salute pubblica, la salvaguardia dell’economia e dei posti di lavoro.
La situazione della pandemia si sta aggravando, l’unica arma efficace che abbiamo fino ad ora è il distanziamento: ad aprile l’abbiamo arginata con un lockdown generalizzato che ha tolto pressione dalle terapie intensive e ha ridotto il numero dei contagiati, ma nel contempo ha abbattuto il Pil come nemmeno dopo una guerra mondiale. Questo secondo problema è stato affrontato con casse integrazioni generalizzate, divieto di licenziamenti e sostegni più o meno diretti ai redditi grazie alla possibilità di un maggior indebitamento che ci è stato concesso dall’Europa (e dai mercati finanziari). Abbiamo giocato un asso che ci siamo trovati in mano, ma un secondo non c’è. Quindi abbiamo tutti ben chiaro che l’Italia (in realtà nessun altro Paese sviluppato) non può reggere un altro lockdown di due-tre mesi.
Ma già i primi provvedimenti restrittivi stanno innescando il corto circuito di cui sopra: se certi negozi tengono chiuso nei fine settimana, se la ristorazione perde orari e clienti, se gli spostamenti vengono sconsigliati se non impediti, le prime vittime economiche le abbiamo già ora. Dai commercianti ai tassisti, dai camerieri alle società sportive. E mezzo mondo economico trema all’idea che le vacanze di Natale – periodo di massimi acquisti per molti settori, e di respiro per turismo, neve, ristorazione – vengano trasformate in un mini-lockdown generalizzato.
Tant’è: primum vivere. Dobbiamo tutti abituarci – riabituarci – all’idea che si possa vivere più o meno normalmente senza però accalcarci come sardine in un centro commerciale; senza fare tavolate di gruppo in una taverna con scarso ricambio d’aria; senza usare quelle forme di protezione individuale che sono anche forme di protezione sociale.
È un problema anzitutto culturale, mentre i decisori politici e tecnici sono chiamati al difficile equilibrio tra le due opposte situazioni. Ognuno di noi deve fare la sua parte, in ogni parte d’Italia. Se serve, consideriamolo un atto puramente egoistico: alla breve tuteliamo la nostra salute, alla lunga salvaguardiamo il nostro portafoglio.