Una guerra (in)attesa. Il racconto per la Difesa del Popolo di Francesca Campanini, inviata ad Hebron
Una guerra senza precedenti negli ultimi decenni nello scenario israelo-palestinese è scoppiata all’alba del 7 ottobre.
L’operazione a sorpresa “Alluvione al-Aqsa” ha visto i militanti dell’ala militare di Hamas, le brigate Ezzedim al-Qassam, insieme a combattenti di altri gruppi armati all’interno della Striscia di Gaza attaccare Israele riversando una pioggia di razzi, cinquemila secondo le dichiarazioni di Hamas e duemila secondo Israele, fino a Gerusalemme e Tel Aviv. L’aspetto più sconvolgente dell’operazione però, che ha colto di sorpresa israeliani, palestinesi e la comunità internazionale, è stata l’offensiva via terra e la penetrazione nelle città israeliane che confinano con la Striscia. Le immagini dei bulldozer palestinesi che demoliscono le recinzioni attraverso cui l’enclave è stata sottoposta a un blocco totale da sedici anni a questa parte sono seguite a quelle che ritraggono i combattenti di Hamas volare con deltaplani a motore sui cieli israeliani e combattere per le strade dei kibbutz e delle città di confine come Sderot, senza risparmiare i civili. Oltre ai veicoli e alle armi di cui i militanti di Hamas si sono appropriati durante gli scontri con le forze israeliane, anche soldati e civili sono stati portati all’interno della Striscia. Nell’ottica strategica di Hamas gli ostaggi, stimati a circa un centinaio, servirebbero all’organizzazione armata per un eventuale negoziato sul rilascio di militanti palestinesi attualmente nelle carceri israeliane. La risposta armata da parte di Israele è arrivata in tarda mattinata con intensi bombardamenti indiscriminati sulla Striscia, nell’ambito dell’operazione “Spade di Ferro” e l’interruzione delle forniture di elettricità. Poco prima, in un video messaggio, il premier Benjamin Netanyahu aveva dichiarato che la risposta israeliana non sarebbe stata “solo” un’operazione militare come quelle che si sono susseguite negli ultimi sedici anni contro Gaza, ma una ritorsione nell’ambito di una vera e propria guerra. I riservisti israeliani, che avevano contestato il governo di Netanyahu e minacciato di non prestare servizio in protesta contro la controversa riforma della giustizia sono stati chiamati alle armi, mentre il leader dell’opposizione Yair Lapid ha invocato l’unità nazionale e si è detto pronto a collaborare con l’esecutivo in carica. Nel corso della giornata, mentre Hamas perseverava nel lancio di razzi in territorio israeliano, l’aviazione delle Israeli Defense Forces continuava a bombardare la Striscia. In questo tragico contesto, già a partire dai primissimi giorni di guerra le morti sono salite a oltre 400 nella Striscia di Gaza e 700 in Israele, migliaia sono i feriti da ambo i lati. Nella mattinata dell’8 ottobre carri armati israeliani hanno marciato verso l’enclave; qualche ore prima, durante la notte, l’attacco da parte dell’organizzazione armata libanese Hezbollah ha colpito le postazioni israeliane nell’area di Sheeba, nel sud del Libano, minacciando di aprire un altro fronte per Israele anche ai suoi confini settentrionali. L’ufficiale di Hezbollah Hashem Safieddine ha inoltre specificato che l’attacco del gruppo sciita è un’espressione di solidarietà ad Hamas. Oltre ai bombardamenti, pare che Israele stia preparando una controffensiva via terra schierando i suoi tank lungo i confini dell’enclave, gli analisti non escludono una rioccupazione della Striscia come prima del disengagement (disimpegno, ndr) voluto da Ariel Sharon nel 2005. Mentre la guerra tra Hamas e Israele si concentra tra Gaza e i territori israeliani confinanti, l’occupazione militare israeliana della West Bank si fa più pesante. Gli scontri tra la popolazione palestinese della Cisgiordania e l’esercito occupante israeliano si sono intensificati con l’inizio di questa guerra, provocando secondo il ministero della Salute dell’Autorità Nazionale Palestinese undici morti palestinesi a Hebron, Qalqilya, Gerico e Ramallah, e almeno settanta feriti nelle sole giornate del 7 e 8 ottobre. A Hebron, dove i militari israeliani che sorvegliano gli insediamenti nel bel mezzo della città sono a stretto contatto con i residenti palestinesi, i confronti sono iniziati nella mattinata del 7 ottobre per continuare fino al pomeriggio. Dopo una “tregua” notturna, sono ricominciati il giorno successivo con minore intensità e i giovani morti sotto il fuoco israeliano mentre lanciavano pietre ai soldati sono saliti a tre in città e dintorni. Nel nord della Cisgiordania, come a Nablus e Jenin dove i gruppi palestinesi locali sono armati, gli scontri con i militari israeliani si fanno anche più intensi: i dintorni del checkpoint di Qalandia, tra Gerusalemme e il nord della West Bank, sono un campo di battaglia, la situazione è meno tesa nei pressi del Checkpoint 300 tra Betlemme e Gerusalemme. Entrambi questi checkpoint, vie d’uscita dalla Cisgiordania verso Israele, sono chiusi, così come quelli che connettono la West Bank alla Giordania. Il principale valico di confine di Allenby Bridge/King Hussein che dà accesso al regno Hashemita è blindato per i palestinesi e aperto per il passaggio di internazionali solamente per qualche ora durante la mattinata. A scatenare l’attacco da parte di Hamas sarebbero stati molteplici fattori: stando alle dichiarazioni dell’organizzazione armata la sua operazione militare sarebbe una risposta al regime di occupazione israeliano che da diciassette anni vessa la popolazione della Striscia, ma anche una reazione alla violazione del sito sacro della Spianata delle moschee a Gerusalemme, che ha visto centinaia di fedeli ebrei scortati da militari fare visite nel luogo che gli israeliani chiamano Monte del Tempio durante la settimana di celebrazione ebraica dello Sukkot. Secondo gli analisti c’è però anche un altro fattore: i negoziati sponsorizzati dagli Stati Uniti per una normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele sembravano in dirittura d’arrivo. La feroce guerra innescatasi la scorsa settimana ha però sconvolto le carte in tavola, aprendo un bagno di sangue in cui per qualunque “vincitore” le perdite saranno di enorme portata.
«La questione palestinese non è stata accantonata»
Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, è addolorato, ma non del tutto stupito dell’orrore in atto in Israele e a Gaza, perché da tempo, lui stesso, aveva previsto una escalation di tensione, seppur non fino a questo punto. Come ha dichiarato su Vatican news: «Questo pone sul tavolo una questione che era stata accantonata: la questione palestinese, che magari qualcuno pensava archiviata. Fintanto che la questione palestinese, la libertà, la dignità e il futuro dei palestinesi non verranno presi in considerazione nelle forme necessarie oggi, prospettive di pace tra Israele e Palestina saranno sempre più difficili. È chiaro che non siamo in un’operazione militare, ma in una guerra dichiarata. E temo sarà una guerra molto lunga. Probabilmente la risposta israeliana non si limiterà ai bombardamenti ma ci sarà un’operazione di terra».
Dall’assedio totale agli ostaggi uccisi
Israele, in risposta agli attacchi di Hamas, ha messo in atto l’«assedio totale» della Striscia, con tagli alle forniture di cibo, acqua, energia e carburante. Gli ultimi numeri prima di andare in stampa, martedì 10 ottobre, dicono che i miliziani di Hamas hanno ucciso più di mille tra civili e militari israeliani, prendendo in ostaggio più di 150 tra israeliani e stranieri. I palestinesi uccisi sono almeno 2.330, circa 700 sono civili. Lunedì 9 ottobre Hamas ha minacciato di uccidere un ostaggio per ogni nuovo bombardamento israeliano compiuto senza permettere l’evacuazione dei civili, e di pubblicare i video delle esecuzioni.