Una Chiesa prigioniera della sua storia? Tre pensieri dalla lettera dei preti stranieri in Italia
La lettera che i preti stranieri in Italia hanno voluto mandare alla Chiesa di casa nostra, dopo una settimana condivisa al Cum (Centro unitario per la formazione missionaria) di Verona, è di quelle da leggere con attenzione per non perdere un’opportunità preziosa.
«Stiamo scoprendo tante ricchezze nella Chiesa che è in Italia – scrivono in un passaggio – La sua storia plurimillenaria, l’organizzazione, anche economica, le strutture, come gli oratori, la presenza di cristiani convinti, la generosità del loro impegno, la solidarietà, la serietà dei cammini di formazione, specie del clero, la varietà di espressioni di pietà popolare e di forme di preghiera». Ma non mancano anche limiti e lacune come «l’invecchiamento dei partecipanti, la poca presenza dei giovani, un certo senso di superiorità, una certa stanchezza e monotonia, si vedano ad esempio i canti, il clero anziano che tende a conservare e ha paura delle novità, o ad accomodarsi, senza più slancio o coraggio nell’affrontare temi decisivi». Note precise a cui si aggiungono altre riflessioni nette: «Incontriamo rigidità, difficoltà di dialogo, diffidenza davanti a nuove proposte.
Ci pesa in alcuni casi la mancanza di comunicazione e di dialogo coi confratelli o con lo stesso vescovo. La nostra presenza viene vista da alcuni come destabilizzante, si creano rivalità, si teme la diversità. Abbiamo anche notato la necessità di maggiore formazione, specie per i laici, che potrebbe rilanciare le comunità». Si tratta di espressioni sintetiche di decine di esperienza personali e comunitarie difficili da condensare in poche parole. Eppure, favoriti anche dal tempo di Avvento che attraversiamo, da questa lettera si sviluppano almeno tre pensieri. Il primo è: smettiamo di abbandonarci alla nostalgia di una mitica età dell’oro finita per sempre.
Abbiamo la fortuna di vivere – oggi – una chiesa vitale, ricca di significati e di persone credenti e credibili, disponibili a donarsi per la comunità. Grazie al cielo abbiamo anche persone che esercitano il loro pensiero critico sulla comunità, che non si stancano di additare che cosa non va (anche nel giornale diocesano!) con l’intento costruttivo di far crescere la Chiesa e chi la compone. I racconti dei più adulti e qualche frammento di esperienza personale di fine anni Novanta e primi Duemila suggeriscono che effettivamente un rallentamento è in atto, la presenza cala a tutti i livelli. Ma occorre anche sottolineare che la presenza di allora non era frutto di consapevolezza e di scelte personali radicate. Era uno dei simboli del “si è sempre fatto così” a livello sociale, che finiva per riverberarsi sulla parrocchia. In questo senso viviamo un tempo di opportunità: oggi, paradossalmente, gli annunciatori del Vangelo possono trovare orecchi più attenti, anche se meno numerosi.
E qui veniamo al secondo pensiero, che riguarda quel «senso di superiorità, una certa stanchezza e monotonia» che ravvisano i preti stranieri. Mi domando: da dove viene questo senso di superiorità? E rispetto a cosa? Non vorrei che ci sentissimo “prigionieri” di quella storia millenaria che ci fa sentire grandi in virtù del sangue dei martiri, della testimonianza dei santi, di quanto si è costruito in decine di secoli, ma che ci impedisce anche di cambiare strada (convertirci, come diceva il Battista nel Vangelo di domenica scorsa) per il timore di buttare via un patrimonio e restare a mani vuote di fronte all’inedito. Come ci siamo ripetuti spesso in questi anni di Sinodo diocesano, è il momento di scegliere l’essenziale, quel che conta davvero. E infine il terzo pensiero: quale ruolo ha in mente questa Chiesa per i laici? I preti stranieri parlano della necessità di «maggior formazione». Gli stessi cristiani impegnati delle nostre parrocchie, magari dopo decenni di servizio, si sentono inadeguati alle responsabilità. Eppure nelle chiese latinoamericane e africane, dove il clero arriva di rado, gli agenti pastorali guidano le comunità. Qui c’è un corto circuito da risolvere. La competenza è necessaria, ma non sufficiente. E di fronte all’invisibile, sono necessari atti di fede e di fiducia.