Un libro profetico. I cento anni di “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo
“La coscienza di Zeno” è il racconto di un uomo scisso tra la riflessione che gli blocca l’azione e la sua volontà di fare.
I cento anni di “La coscienza di Zeno”, un libro essenziale per il Novecento italiano, attraversano le strade della maturità, nel senso proprio di esami di stato (ma anche dello studio della letteratura moderna e contemporanea), che hanno in quel romanzo uscito nel 1923 uno dei punti di riferimento, e quelle delle correnti della letteratura, in questo caso il cosiddetto Decadentismo. Questa è l’etichetta con la quale in genere viene presentato il capolavoro di Ettore Schmitz, il vero nome dell’autore, nato a Trieste il 19 dicembre del 1861 da una famiglia in cui si parlava originariamente un misto di slang triestino e di tedesco imposto dal padre che mandò due dei suoi otto figli, e tra questi Ettore, a studiare in Germania.
Quello pseudonimo è anche il simbolo di una situazione di non identità: da una parte la germanicità imposta dal fatto che Trieste si trovava all’interno dell’impero austro-ungarico, e da una parte l’italianità della famiglia della madre, Allegra Moravia: un po’ rivendicazione della propria identità, all’interno della diffusa cultura irredentista di quella zona di confine, un po’ appartenenza anche al crogiuolo di culture dell’Europa centrale che nella lingua tedesca (la Svevia è una regione della Germania) vedevano un mezzo comune di espressione.
Dopo i tentativi, ignorati dalla critica ufficiale, di “Una vita” e “Senilità”, Ettore-Italo lascia perdere per trent’anni la scrittura creativa, si sposa, lavora presso la ditta della moglie, senza però abbandonare le letture e le scoperte, come quella della psicoanalisi di Freud, con la quale avrà un rapporto ambiguo, di attrazione-repulsione.
Già dal titolo si intuisce che questo romanzo-cardine della nostra letteratura ha a che fare più con le profondità della psiche che con l’azione: è la storia di un uomo che cerca disperatamente di agire positivamente nella realtà abbandonando le riflessioni e i pensieri che in qualche modo lo immobilizzano e gli impediscono di fare, un po’ come accade in un altro capolavoro del Novecento, “L’uomo senza qualità” di Musil, uscito a partire dagli anni Trenta ma iniziato già a fine Ottocento.
Zeno Cosini tenta dunque di agire, ma fa una gaffe dietro l’altra: si rende conto che l’azione nuda e cruda non è fatta per chi riflette, ma per i superficiali, quelli che non hanno tanti grilli per la testa, sgombri dai “se” e dai “ma” che assillano gli intellettuali come lui. E la letteratura del Novecento è piena di questi inetti che non riescono ad agire, basti pensare a “Con gli occhi chiusi” di Federigo Tozzi, a “Rubè” di Giuseppe Antonio Borgese, a “Uno nessuno e centomila” e al “Fu Mattia Pascal” di Pirandello, a Kafka e a Joyce.
Proprio con l’autore di “Ulisse” Svevo intesserà una lunga amicizia (Joyce ha vissuto a Trieste per un certo periodo) che culminerà con la “promozione” di Ettore-Italo all’interno della letteratura europea. Promozione che tra l’altro non si godrà perché sarà vittima di un incidente automobilistico nel 1928.
“La coscienza di Zeno” è dunque il racconto di un uomo scisso tra la riflessione che gli blocca l’azione e la sua volontà di fare. Alla fine questa apparente schizofrenia, che in realtà è parte della complessità dell’essere umano, dovrà fare i conti con quella più generale dell’intera umanità che nel 1914 si immerge in un conflitto totale. Eccola l’azione, sembra dire Svevo: il ritorno all’uomo primitivo, alla lotta per la sopravvivenza che in quegli anni Darwin aveva scoperchiato di fronte alla buona borghesia intellettuale.
Le pagine della Coscienza si chiudono con una geniale profezia: “La vita attuale” -siamo negli anni Venti del Novecento!- “è inquinata alle radici. L’uomo si è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio”.
La profezia finale di un uomo che inventa e mettere in funzione un ordigno “incomparabile”, in grado di distruggere la vita sulla terra la dice lunga sullo sguardo di uno scrittore che ci mette in guardia dal ritorno alla barbarie mascherata da azione pura. E da una vita in cui lo spirito viene bandito come sorpassato e frutto di superstizione, invece che soglia verso una nuova reale umanità, come Bernanos, Chesterton, Tolstoj e molti altri stavano predicando in quegli stessi anni.