Teologia. Battocchio (Ati): “Chi è quel Dio nel quale diciamo di credere o di non credere?”
Per chi si aspetti dalla teologia risposte in grado di risolvere il mistero della morte, oppure ricette per la felicità, il rischio di restare delusi è grande. Ma la sua "ricerca umile, assidua, appassionata dell’intelligenza di ciò che è testimoniato dalla Scrittura ed è vissuto e celebrato dal popolo dei credenti", aiuta ad "abitare consapevolmente e responsabilmente il mistero, anche quello della morte, senza lasciarsi prendere da quel tipo di paura che blocca la capacità di fidarsi e di sperare". Intervista con il neo presidente dell'Ati che avverte: "La teologia non è estranea al dibattito pubblico"
Etimologicamente è lo “studio di Dio”, ossia un interrogarsi sulle ragioni della fede. Pilastro degli studi universitari nel Medio evo, nei secoli successivi la teologia è stata progressivamente estromessa e tenuta a distanza rispetto ai diversi ambiti scientifici, relegata sempre più a mera funzione di approfondimento ed elaborazione della fede. Eppure non si tratta di una “disciplina da sacrestia”, bensì di una palestra di intelligenza e allenamento all’attività di pensiero che può aiutare ogni ambito della ricerca a non perdere di vista le grandi questioni di senso e di valore delle cose, e il loro imprescindibile riferimento alla centralità dell’uomo e alla sua ricerca di verità. Dove sta andando oggi la teologia, e qual è la sua attualità? Lo abbiamo chiesto a don Riccardo Battocchio, vicepreside della Facoltà teologica del Triveneto, da un mese presidente dell’ Associazione teologica italiana (Ati) per il quadriennio 2019 – 2023.
Nella teologia è in gioco la questione della verità, ma oggi qualcuno afferma che esistono “tante verità”. Ha ancora senso di parlare di teologia?
Dire che esistono “tante verità” può essere una formula suggestiva, qualora si voglia evitare l’identificazione immediata fra la realtà e i concetti o si voglia garantire alle persone la possibilità di esprimere il loro punto di vista. Resta però una formula vuota se non ci si pone, previamente, il problema della verità, al singolare. Rinunciare a porsi questo problema, in fin dei conti, significa rinunciare a pensare e rassegnarsi a risolvere con la forza le difficoltà con le quali ci imbattiamo vivendo in questo mondo. La domanda sulla verità e la domanda su Dio – ponendo la quale si fa, inevitabilmente, “teologia” – si richiamano l’un l’altra: chi è veramente quel Dio nel quale diciamo di credere o di non credere?
Direi che ha senso “parlare di teologia” se ha senso lasciarsi provocare, almeno di tanto in tanto, da domande di questo tipo. Nell’orizzonte della fede cristiana, il discorso su Dio assume una tonalità particolare. Il suo punto di partenza è la domanda provocata da una parola che la precede, quella parola nella quale alcune persone hanno riconosciuto e riconoscono il donarsi di Dio stesso nella carne di un uomo, di un Vivente, e in una storia generata dall’incontro con quel Vivente.
Il mistero della morte, la domanda di senso, la ricerca di felicità abitano il cuore di ogni uomo, credente e non. Che risposta può dare la teologia?
Se dalla teologia si pretende una risposta capace di risolvere il mistero della morte o di fornire ricette per la felicità, il rischio di restare delusi è grande. La ricerca umile, assidua, appassionata dell’intelligenza di ciò che è testimoniato dalla Scrittura ed è vissuto e celebrato dal popolo dei credenti (la Chiesa) – ecco cos’è la teologia – aiuta ad abitare consapevolmente e responsabilmente il mistero, anche quello della morte, senza lasciarsi prendere da quel tipo di paura che blocca la capacità di fidarsi e di sperare.
La teologia permette di dire le ragioni di questa fiducia e di questa speranza, articolando le parole della fede con quelle che nascono dall’esperienza comune agli esseri umani: l’esperienza del nascere, del vivere, del morire.
E che risposta al diffuso, anche se un po’ generico, interesse per il religioso, spesso su base emotiva e irrazionale?
La religiosità è una dimensione dell’umano. La si può spiegare in tanti modi, anche senza ricorrere a Dio o a una realtà altra da questo mondo, ma rimane un dato difficile da trascurare. In essa sono in gioco emozioni, ragioni, decisioni. La teologia, praticata seriamente, aiuta a non ridurre la religiosità a sentimento superficiale e a non ridurre la fede a un complesso di idee o di dottrine.
La teologia richiama i credenti all’eccedenza di Dio rispetto a qualsiasi nostra comprensione di Lui e, nello stesso tempo, aiuta a interpretare i segni della sua presenza e della sua azione nel mondo.
Che relazione può avere con la ricerca e il sapere filosofico/scientifico?
Sappiamo come nel corso della storia, almeno in Occidente, il rapporto fra i discorsi teologici, filosofici e scientifici si sia caricato e sia tuttora carico di tensioni. E tuttavia da questo rapporto non si può prescindere, se si vuole comprendere la realtà. Non spetta al teologo, in quanto teologo, dire qual è il modo giusto di fare filosofia o di condurre la ricerca nell’ambito delle scienze della natura. Di certo, però, chi fa teologia non può non mettersi in ascolto di quanto emerge dall’indagine filosofica e scientifica.
Sguardi nuovi sulla realtà, educati dalle filosofie e dalle scienze, permettono di interpretare in modo nuovo elementi importanti della tradizione cristiane. Le domande poste dalle filosofie e dalle scienze della natura provocano il credente pensante a cercare risposte adeguate, per dar ragione a sé e agli altri, in questo tempo, della propria speranza.
Quale può essere il legame tra riflessione teologica e grandi questioni del presente? Penso a inizio e fine vita, temi economici, giustizia, migrazioni, neuroscienze..
Il XXVI Congresso dell’Ati, svoltosi ad Enna dal 2 al 6 settembre scorso, ha visto un’ottantina di teologi e teologhe impegnati nell’ascolto di persone particolarmente competenti nell’ambito delle neuroscienze, dei nuovi mezzi di comunicazione, dell’economia e della finanza. È certamente necessario chiarire i punti di riferimento per un agire responsabile nei vari ambiti dell’esistenza, come è necessario formulare norme corrette e praticabili. Noi però sentiamo l’esigenza di maturare, per quanto possibile, una visione dell’essere e dell’agire della persona umana (una “antropologia morale”) alla luce dalle quale credenti e non credenti possano impegnarsi ad affrontare le questioni del presente.
Non esiste un insegnamento monolitico: esistono diverse correnti e “scuole”. Dove sta andando oggi questa disciplina?
Se la fede è una, la teologia è necessariamente plurale. Ai teologi infatti è chiesto di pensare e dire la stessa fede ma in tempi e contesti diversi, in rapporto a diverse culture e sensibilità, a diversi interlocutori. Il pluralismo è fisiologico. A volte i teologi litigano fra loro ma, fatti salvi il fair play e la buona educazione, la cosa non fa problema, purché non si comprometta l’unità nella fede e la comunione nella carità. La difficoltà oggi, in Italia, sta nel fatto che la teologia è percepita – da molte persone di cultura ma anche da alcune persone che hanno responsabilità nella Chiesa – come un’impresa quasi esclusivamente intra-ecclesiale, estranea al dibattito pubblico. Su questo fronte c’è molto lavoro da fare.