Ruanda, un sopravvissuto al genocidio: «Senza la preghiera la mia vita non avrebbe avuto senso»
Il 7 aprile scorso è stato il trentesimo anniversario del genocidio del Ruanda. Jean-Paul Habimana, quando ebbe inizio il genocidio, aveva appena dieci anni. Oggi insegna religione a Milano. Su questa vicenda ha scritto anche un libro.
Il 7 aprile è stato il trentesimo anniversario del genocidio dei tutsi in Ruanda. Tutto cominciò quando, nel 1994, due razzi abbatterono l’aereo su cui viaggiavano il presidente del Ruanda, Juvénal Habyarimana, e il presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira. L’attentato rappresentò il pretesto per la popolazione hutu per commettere un massacro a uomini, donne e bambini di etnia tutsi, la popolazione minoritaria del Paese. In poco più di tre mesi furono uccisi più di 800mila tutsi.
Jean-Paul Habimana aveva dieci anni quando ebbe inizio il genocidio. Oggi è insegnante di religione a Milano, e di questa vicenda ha scritto un libro: Nonostante la paura, il genocidio dei tutsi e Riconciliazione in Ruanda. Per il Sir ha raccontato la sua esperienza in occasione dell’anniversario del massacro. “Io e il resto della mia famiglia appartenevamo all'etnia dei tutsi. Quando ebbe inizio il genocidio io e mio fratello ci siamo rifugiati nella parrocchia. Dopo alcuni giorni, gli hutu sono arrivati anche da noi e ci hanno tagliato le tubature dell’acqua. Oltre alle uccisioni, abbiamo subito anche la fame e la sete. Sono stato uno dei pochi che è riuscito a sopravvivere in quella parrocchia. Ad un certo punto una mia vicina di casa di etnia hutu che non aveva partecipato al genocidio è venuta nella parrocchia per vedere se c'era ancora qualcuno, e mi ha portato a casa sua assieme a mio fratello. Siamo rimasti pochissimi giorni, perché poi ci hanno scoperto. Intorno a giugno mi hanno spostato in un campo profughi di Nyarushishi dove mi hanno raggiunto mia mamma, i miei fratelli e le mie sorelle”.
Solo nel settembre del 1994 Habimana ha potuto lasciare il campo profughi. Chi non ha fatto più ritorno da questo massacro è suo padre. Del suo destino, nessuno ha saputo più nulla. “Ho sentito molto la sua mancanza – confida Habimana . Potete immaginare cosa significhi per un bambino di dieci anni crescere senza il padre. Tuttavia, ho cercato di abbracciare questa mia croce e di andare avanti. La Chiesa, specialmente dopo il genocidio, è stata tutto per me. Senza la preghiera, la mia vita non avrebbe avuto nessun senso. Tutti i giorni dopo il genocidio non facevo altro che pregare. Era l'unica nostra consolazione. Mi chiedo spesso come avrebbe fatto mia mamma, diventata vedova da giovane, senza la preghiera. Era la sua forza, come quella di tante altre donne e orfani. Per noi significava avere un contatto con Dio: lui ci ha fatto vivere tutto questo per un motivo che non abbiamo ancora compreso, ma ci ha fatto anche sopravvivere. Non ci ha mai deluso, ci ha messo sulle spalle l’esperienza più brutta che l'essere umano possa vivere, ma ci ha regalato anche la vita”.
Habimana sottolinea come la Chiesa si sia spesa molto anche dal punto di vista comunitario in Ruanda. Subito dopo il genocidio racconta come siano state istituite nel Paese delle comunità ecclesiali di base” Imiryangoremezo”. Qui, i sacerdoti aiutavano le persone a parlare. Con i superstiti al massacro si cercava anche di sostenere un dialogo con le mogli degli assassini, per approcciare una sorta di rinnovata convivenza. Un processo che dopo trent’anni Habimana affronta ancora dentro di sé. “I miei sentimenti dipendono dalle giornate. Mi capita di avere diversi momenti di pace e riconciliazione. Purtroppo in questi giorni, specialmente quando si avvicina l’otto aprile, l’ultimo giorno in cui ho visto mio padre, non nascondo come emerga in me la rabbia. Mi è capitato di incontrare degli assassini pentiti dei loro crimini, oggi liberi in Ruanda. A volte, pur essendo vicini di casa, vorrei non rispondere ai saluti. Però so che bisogna andare avanti. Ormai tutto questo è successo. Devo saper perdonare, perché altrimenti ci si fa più male”.
Oggi Habimana racconta del Ruanda ai suoi studenti, che gli chiedono spesso delle sue esperienze. “Il libro che ho scritto sul genocidio l’ho pensato proprio per loro. Spesso si stupiscono. Loro faticano a raccontare dei piccoli dolori, mentre io sono un libro aperto per loro. Ma raccontare questa storia non è una passeggiata. Nei primi sei anni in Italia non l’ho mai raccontata a nessuno. L’ho fatto quando mi sono sentito pronto. Tanti oggi ancora non riescono ad aprire bocca. Quello che si può imparare da questa vicenda, è che è un genocidio che è avvenuto nello stesso popolo. Anche noi in Italia dobbiamo stare attenti a non pensare che siano degli avvenimenti lontani da noi. Perché questo massacro è nato tra gente che non si odiava. Si salutava tutti i giorni, andava a prendere l'acqua alla fontana insieme, faceva tutto insieme. Da vent’anni vivo nella comunità italiana, e vedo divisioni tra gente che ha tutto in comune”.
Lorenzo Garbarino