Quando scienza e fede non sono nemiche. Un libro di Pietro Menga sui rapporti tra la ricerca di assoluto e quella delle leggi del mondo
Noi possiamo interpretare il linguaggio del cosmo adattandolo al nostro, attraverso la descrizione di quello che riusciamo a percepire della realtà osservata.
Già John Carew Eccles, neurofisiologo Nobel per la medicina nel 1963, era andato giù pesante: la convinzione “di spiegare tutto il mondo spirituale in termini di schemi di attività neuronale (…) seve essere classificata come superstizione”. Poi ci si è messo di mezzo un altro uomo di scienza -e medicina-, il neurochirurgo Eben Alexander, che in un libro di qualche anno fa, edito in Italia da Mondadori, “Milioni di farfalle”, aveva narrato la sua incredibile, se non fosse stata reale, esperienza della persistenza della memoria e degli effetti quando essa avrebbe dovuto essere impedita dal fatto che l’organo di riferimento, il cervello, era stato divorato dalla Escherichia Coli. Il neurochirurgo un tempo materialista ed ateo ha visto e sentito cose che lo hanno portato alle fede in Dio. La memoria, aveva ragione il filosofo Bergson, non è un susseguirsi unidirezionale di punti tutti uguali. La vita è qualcosa di più di un insieme di organi, il suo tutto non è una mera sommatoria di parti. Per la scienza meccanicistica quelle visioni, quelle esperienze, quelle dislocazioni nello spazio tempo non avrebbero dovuto avvenire. Una scienza basata su calcoli viziati dalla prospettiva umana, troppo umana, avrebbe detto un filosofo nemico del razionalismo a tutti i costi. Come conferma ora Pietro Menga, già ricercatore per l’Enel sui temi delle energie rinnovabili e della salvaguardia ambientale, nel suo “Scienza vs Fede” (Lindau, 239 pagine, 24 euro), noi possiamo interpretare il linguaggio del cosmo adattandolo al nostro, attraverso la descrizione di quello che riusciamo a percepire della realtà osservata. Molti hanno visto nel Principio di Indeterminazione di Heisenberg e più in generale nella fisica quantistica l’avvento del caos, del materialismo e del relativismo assoluto, mentre altri, tra cui chi scrive, vi hanno letto, al contrario, la controprova della parzialità del nostro punto di vista e l’impossibilità di dire una parola definitiva sulla nascita, e sul destino, del tutto.
Menga mette bene in evidenza questa dimensione attraverso un cammino, quello della scienza, che non può “che procedere per intuizioni e tentativi” e che può trovare concordanze con i calcoli, non con ciò che esiste realmente fuori e dentro di noi. Le attuali visioni olistiche dell’universo tengono conto di una dimensione connessa, nella quale il più piccolo essere è unito in una “simbiosi cosmica” con l’esistente nella sua interezza. La riscoperta in occidente di religioni e visioni del creato, come il taoismo, lo zen, il buddismo, o il riproporsi di interpretazioni sincretistiche, la stessa rivalutazione della figura di Cristo nel suo ritorno alla semplicità naturale, la riscoperta della proto-ecologia di San Francesco e san Benedetto da Norcia, una vera e propria rifondazione della civiltà occidentale, hanno causato spesso fraintendimenti generalizzanti, ma anche un nuovo cammino di ricerca della spiritualità contro un materialismo sempre più finalizzato al consumo.
Non è un caso che Menga auspichi un ritorno, a iniziare dalle chiese, alla “francescana meraviglia per il creato che dovremmo sentire in noi in ogni istante”. Libro questo che rispetta sia l’ambito della ricerca scientifica, purché non si ritenga onnisciente, sia quello della fede, purché non tenti di ammaestrare solo attraverso dogmi e confutazioni del cammino della scienza. Con una “scelta” finale che lasciamo alla curiosità del lettore.