Produrre alimenti, non conflitti. Le cronache di questi giorni ripropongono la necessità di un’agricoltura che unisce e non divide

Produrre cibo per tutti, con attenzione ai territori e all’ambiente ma anche ai mercati si può fare

Produrre alimenti, non conflitti. Le cronache di questi giorni ripropongono la necessità di un’agricoltura che unisce e non divide

Agricoltura “di pace” oppure “di guerra” (seppur non certo a suon di armi). Comunque un comparto – quello della produzione alimentare – che spesso divide invece di unire, anche se gli accordi magari si fanno a tavola. La storia e la cronaca dicono, d’altra parte, che molti conflitti commerciali (e non solo) si sono scatenati per il dominio delle risorse alimentari, oppure di quelle idriche che della produzione di cibo sono elemento indispensabile. Quando poi nelle relazioni di filiera oppure tra territori e Stati, ci si mettono anche il clima e i mercati, allora tutto si complica ulteriormente. Per capire meglio, basta guardare alle ultime cronache di casa nostra per avere più di un riscontro. Così, per reperire gli esempi di agricolture che avvicinano e di altre che allontanano, è sufficiente andare alla situazione della cerealicoltura e a quella degli allevamenti.
Cerealicoltura, dunque, e quindi grano e cioè la base di alcuni tra gli alimenti più comuni: il pane e la pasta. Pochi giorni fa in eventi concomitanti si è fatto il punto sulla produzione di grano duro in Italia e all’estero: un quadro che restituisce un’immagine difficile di una filiera spaccata. I mugnai italiani di Italmopa nel corso dei Durum Days non hanno avuto timore di dire che “quando affrontiamo il tema delle importazioni dobbiamo innanzitutto ricordare che la produzione italiana di frumento duro risulta strutturalmente deficitaria, in misura del 40%, rispetto alle esigenze quantitative, e talvolta qualitative, dell’industria molitoria nazionale”. Intanto, dal punto di vista produttivo, il Crea (il centro nazionale delle ricerche agricole), prevede un calo generalizzato dei raccolti. Dal lato dei coltivatori, poi, va tutto storto. Coldiretti, in un altro evento, ha detto chiaro: “La produzione di grano duro scenderà quest’anno sotto i 3,5 milioni di tonnellate (rischiando di essere ricordata come la più bassa degli ultimi 10 anni) per effetto della riduzione delle superfici coltivate, causata dalla concorrenza sleale di prodotto straniero, e della siccità che ha colpito le regioni del Sud Italia”. Già, “concorrenza sleale”. E’ proprio su questi termini che si divide la filiera: da un lato gli industriali sottolineano che le importazioni servono, dall’altro gli agricoltori spiegano, come dice Coldiretti, che “nel 2023 sono arrivati quasi 900 milioni di chili di grano russo e turco, un’invasione mai registrata nella storia del nostro Paese. Un vero e proprio fiume di prodotto che, aggiunto a quello di grano canadese, arrivato a superare il miliardo di chili, ha impattato sui prezzi del grano nazionale”. Il risultato? Superfici e raccolti che diminuiscono e un comparto prezioso che non riesce (o quasi) a trovare punti di accordo.
Contrapposizione forte, quindi, quella che si sta vivendo da tempo in cerealicoltura. Ma, come si è detto, la produzione di cibo può generare anche altro. Addirittura una razza bovina europea? Forse sì. Sempre dalle cronache di questi giorni arriva infatti un esempio piccolo ma significativo con il progetto “Blonde d’Aquitaine: European Beef Excellence” che si basa sulla valorizzazione di una razza bovina da carne “transfrontaliera” tra Italia e Francia. Animali antichi mai dimenticati nelle valli di confine il cui allevamento dal 2020, in virtù della necessità di aumentare qualità e quantità della produzione zootecnica, le associazioni di allevatori cercano di far crescere e conoscere. In campo, con fondi europei, tecnici di Asprocarne Piemonte e France Blonde d’Acquitaine Selection con alle spalle due sistemi di certificazione della qualità (uno italiano e uno francese) e con il traguardo non solo di valorizzare una razza da carne autoctona, ma di arrivare a delineare un modello produttivo che badi più alle cose che uniscono i territori agricoli piuttosto che a quelle che possono dividerli.
Certo, non si possono mettere sullo stesso piano piano il grande comparto della cerealicoltura nazionale con il piccolo allevamento trasfrontaliero di una antica razza da carne. Eppure un segnale si può cogliere: produrre cibo per tutti, con attenzione ai territori e all’ambiente ma anche ai mercati si può fare. Deve essere però coltivata un’idea di un’agricoltura che unisce e non divide, attenta alle economie interne, scrupolosa nei confronti dell’ambiente ma anche di chi vi lavora faticosamente e deve essere giustamente ricompensato, un’agricoltura capace di sorpassare i confini geografici ed economici piuttosto che di costruirne di nuovi.

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Fonte: Sir