Porta Pia 150 anni dopo. Dopo la Storia, è il momento che Roma si interroghi sul proprio futuro
Il 20 settembre 1870 si è consumato un conflitto: una breccia aperta col cannone, a pochi passi dalla Porta Pia disegnata da Michelangelo, con lacune decine di morti tra soldati italiani e zuavi pontifici. Il conflitto si è protratto per quasi cinquant’anni sul piano diplomatico, fino alla Conciliazione, l’11 febbraio 1929, quando il Trattato Lateranense ha riconosciuto la sovranità dello Stato della Città del Vaticano, che ormai non aveva nulla in comune con l’antico Stato della Chiesa. Ora, centocinquant'anni dopo, bisogna interrogarsi sul futuro, la prospettiva di questa città nella sua triplice dimensione cattolica e religiosa, italiana, universale. Una città chiamata, soprattutto in questa stagione di crisi prolungata in cui versa, direi a partire dal duemila, con il grande giubileo, a “diventare ciò che è”, ovvero un grande segno positivo
Non suscita più le passioni e le intemperanze di un tempo ormai lontano, ma questo venti settembre merita di essere ricordato. E non solo perché sono rotondi 150 anni.
Ma per i molti motivi di riflessione su Roma.
Il 20 settembre 1870 si è consumato un conflitto: una breccia aperta col cannone, a pochi passi dalla Porta Pia disegnata da Michelangelo, con lacune decine di morti tra soldati italiani e zuavi pontifici. Il conflitto si è protratto per quasi cinquant’anni sul piano diplomatico, fino alla Conciliazione, l’11 febbraio 1929, quando il Trattato Lateranense ha riconosciuto la sovranità dello Stato della Città del Vaticano, che ormai non aveva nulla in comune con l’antico Stato della Chiesa. La cui debellatio, come si dice in linguaggio diplomatico, è stato un grande fatto europeo, italiano e religioso. Libera la Santa Sede dal vincolo di un principato territoriale, assecondando il processo, formalizzato nel Concilio Vaticano I, che si chiude proprio in quei giorni, di ridefinizione del ruolo del Papato sul piano propriamente religioso e sovra-nazionale.
Un ruolo che Pio IX cominciò giocare e che sarà quello dei tutti i suoi successori, tanto più quando ebbero, non a caso proprio nell’età dei totalitarismi, anche la garanzia di una micro sovranità territoriale.
Di qui il “miracolo” di una città capitale di due Stati: dell’azione della Provvidenza a proposito della “questione romana” hanno parlato tra gli altri a caldo Pio XI e poi il cardinal Montini poco prima di diventare Paolo VI solennemente in Campidoglio alla vigilia dell’apertura del Concilio. Si tratta di un modello planetario per tutti gli stati divisi da muri e guerre civili, come pure da conflitti religiosi o sociale. Pensiamo solo a Gerusalemme. Papa Francesco, nella meditazione letta dal cardinale Parolin all’apertura delle celebrazioni del centocinquantenario lo scorso 5 febbraio, ha rilanciato su questa prospettiva.
Fin qui la storia.
Ora però bisogna interrogarsi sul futuro, la prospettiva di questa città nella sua triplice dimensione cattolica e religiosa, italiana, universale.
Una città chiamata, soprattutto in questa stagione di crisi prolungata in cui versa, direi a partire dal duemila, con il grande giubileo, a “diventare ciò che è”, ovvero un grande segno positivo.
Questo vale in particolare per Roma in quanto capitale dell’Italia, che ha bisogno di uno statuto normativo adeguato al ruolo costituzionale che le è stato riconosciuto con la riforma del titolo V, ma anche di una dirigenza amministrativa finalmente all’altezza. Vale per Roma “universale”, che deve valorizzare il suo patrimonio di cultura e di valori, con quello stile non dogmatico, né assertivo, ma persuasivo ed empatico, che le è proprio.
È la linea fraternità operosa, della imminente enciclica di papa Francesco e del suo magistero.
Un ottimo propellente, e anche un programma, per festeggiare i 150 anni e soprattutto per guardare oltre, con un rinnovato slancio politico e amministrativo perché culturale e morale.