Migranti respinti e uccisi in Libia. Sdegno delle organizzazioni: “Inammissibile”
Tre persone sono morte in seguito a una sparatoria durante lo sbarco a Khums. Ad aprire il fuoco uomini della Guardia costiera libica. Chiavacci (Arci): “Responsabilità anche italiana”. Medu: “La Libia è una fabbrica di tortura e morte”
“Quanto accaduto in Libia è inammissibile. Si tratta dell’ennesimo orrore, denunciato questa volta dall'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), compiuto dalla Guardia costiera libica che ha aperto il fuoco contro un gruppo di migranti durante le operazioni di sbarco, uccidendone tre e ferendone cinque”. Lo sottolinea in una nota la presidente dell’Arci Francesca Chiavacci, in riferimento alla sparatoria, documentata dal personale Oim a Khums, che ha visto coinvolti alcuni migranti respinti in Libia.
“Nella sparatoria compiuta dalla Guardia costiera libica ci sono però delle responsabilità anche italiane - aggiunge Chiavacci -. Solo pochi giorni fa, infatti, l’Italia ha approvato, per il terzo anno consecutivo, il finanziamento della missione italiana in Libia, che prevede in particolare il sostegno economico alla Guardia costiera libica e l’attività di formazione e addestramento dei suoi componenti. Come Arci abbiamo denunciato più volte le atrocità compiute in Libia ed abbiamo aderito all'appello “I Sommersi e i Salvati”, per chiedere di bloccare i finanziamenti alla cosiddetta Guardia costiera libica, chiudere i centri di detenzione in Libia e creare dei corridoi umanitari per le persone in fuga”.
E lo sdegno per quanto successo in Libia è unanime tra le organizzazioni umanitarie. Medu (Medici per i diritti umani) parla della Libia come “una fabbrica della tortura e della morte”. E riporta una testimonianza di un ragazzo del Gambia di 20 anni che da Al-Khums ci è passato: "Da lì, sono stato portato alla prigione di Al-Khums, lontano da Tripoli. C’erano più di 300 persone in ciascuna stanza, non c’era spazio per stendersi e per dormire. Ci davano poca acqua e poco cibo. Ogni giorno alle 13 ci portavano un pezzo di pane e un bicchiere di acqua. Questo era tutto ciò che abbiamo ricevuto per tutti gli 8 mesi in cui sono stato detenuto lì dentro. Ci picchiavano tutti i giorni con i tubi di gomma delle pompe dell’acqua. Di solito venivano e ci gettavano l’acqua ghiacciata addosso. Poi ci chiamavano, gruppo a gruppo, e ci picchiavano. Molte persone sono rimaste gravemente ferite. Ho visto alcune persone perdere le proprie gambe a causa delle violente percosse che ricevevano. Ci picchiavano molto e ci chiedevano i soldi. Mi hanno chiesto molte volte di dargli 500 dinari (321 euro, ndr) per essere rilasciato, ma io non avevo quei soldi e loro allora continuavano a picchiarmi". Questo racconto è una delle oltre tremila tragiche testimonianze sulla Libia raccolte in questi anni dagli operatori di Medici per i Diritti Umani.