La vera bellezza. La scomparsa di Biagio Conte
La rinuncia di Francesco ha affascinato credenti e non.
L’addio a Biagio Conte ci ha risvegliato dal sopore della distanza: Francesco d’Assisi, di buona e sostanziosa famiglia se ne era andato a ritrovare il senso della vita ottocento anni fa. “Ormai non è più possibile quella scelta”, dicevamo a noi stessi. E agli altri. Biagio ci ha destati. E’ possibile andarsene da una ricca casa e affrontare il freddo e la fame, viaggiare a piedi non solo per l’Italia. È possibile fare e fondare solidarietà e pratico aiuto a chi la casa l’ha lasciata per tanti e diversi motivi, compresi carestie, fame, persecuzione.
L’addio terreno al fondatore della Missione di speranza e carità ha riaperto crepe e dubbi nelle nostre coscienze, che in realtà non si erano mai chiusi del tutto. Essere un uomo nuovo e senza radici, per usare le parole di don Raffaele Bensi in una lettera a don Milani, è una chiamata senza appello, una rinascita dove e quando non la immagineremmo, presi come siamo dallo start per i saldi o dallo shopping compulsivo.
E invece fratel Ettore e i suoi ultimi nei sotterranei della stazione centrale di Milano ci avevano già, anni fa, aiutato a capire che tutto è possibile anche nel muro non visibile di pochi, otto, iper-ricchi che detengono un tesoro pari a quello della metà della popolazione povera mondiale.
Non si tratta solo di operare la carità verso gli altri. Per Biagio soprattutto si è verificato il passaggio reale nella condivisione dell’acqua, del pane, del giaciglio per strada.
La storia ci ha narrato altri addii: Sant’Antonio abate che nel terzo secolo scelse la solitudine e la preghiera, ma anche l’aiuto agli altri cristiani durante le persecuzioni, tanto da affascinare il sospettoso, scettico Flaubert che gli dedicò un racconto. E Antonio non è stato il solo: oltre il rifondatore del nuovo occidente dopo il collasso dell’impero romano, san Benedetto, anche lui in fuga dalla sazia vita dei privilegiati, alcune fonti ci narrano di sant’Alessio che abbandona la ricca casa paterna la sera prima delle sue nozze, per vivere poveramente e condividere il poco con i poveri, e che torna poi sotto la sua casa, senza farsi riconoscere, lasciando che solo dopo la sua scomparsa la propria identità fosse rivelata, il che ha molto in comune con la storia di Giovanni Calibita.
E non sono solo questi i folli apparenti di Dio: ce ne sono stati molti altri, anche in tempi relativamente recenti, che hanno messo in crisi la visione di un mondo avviato verso sorti magnifiche e progressive e che invece rivela infelicità e insoddisfazione: basta ricordare il Tolstoj della condanna radicale della sua società, e della stessa letteratura, che decide di abbandonare il suo mondo dorato, morendo in una stazione sperduta nell’inverno russo.
Un altro intellettuale e poeta, Clemente Rebora, dopo aver scritto uno dei capolavori della poesia italiana del Novecento, Frammenti lirici, si fece rosminiano, sparendo nel silenzio e nella preghiera. E non è un caso che molti episodi della cultura d’occidente siano stati attraversati dal dubbio rovente della insensatezza di una vita piena di lussi inutili: si pensi alla scena, nel film di Ozpetek, “Cuore sacro”, della spoliazione della agiata protagonista e la sua scelta di varcare la soglia della miseria, che ci riporta inevitabilmente al giovane ricco d’Assisi che getta via i suoi abiti. Per restare nel cinema, non dimentichiamoci che nel 1968, il padre di famiglia del pasoliniano “Teorema” si spogliava dei suoi vestiti in un gesto di rifiuto di una vita senza più senso. La rinuncia di Francesco ha affascinato credenti e non: le pagine finali di Uno, nessuno e centomila di Pirandello narrano ancora una volta la spoliazione di un ricco che dona ai poveri i suoi beni.
Biagio ci ha mostrato che una nuova vita è possibile, anche oggi, nonostante i messaggi di avidità e le sirene di un’esteriorità fine a se stessa. E che la bellezza vera è un’altra cosa.