Il reddito di cittadinanza ha bisogno di un tagliando
Una messa a punto del provvedimento è doverosa. Anche per evitare che le contraddizioni obiettivamente presenti diventino il pretesto per azzerare tutto e rinnegare il cammino faticosamente compiuto in questi anni, a partire dalla proposta del reddito d’inclusione sociale, lanciata dall’Alleanza contro la povertà nell’ormai lontano 2013
Tra reddito e pensione di cittadinanza le domande accolte hanno superato la soglia di un milione. Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Inps e aggiornati al 31 ottobre, le domande per il reddito che hanno avuto il via libera sono state 900.283, quelle per la pensione 120.327. Le domande presentate erano state 1.555.588, quindi oltre 500 mila sono state respinte. La geografia del provvedimento non ha subito modifiche rilevanti: in testa per numero di domande risultano sempre Campania e Sicilia, seguite dalla Lombardia. Il tasso di adesione, confrontato con le stime dell’Istat sulla platea potenziale, è molto elevato: circa l’80%, un dato nettamente superiore alle medie che solitamente si registrano in altri Paesi europei per misure analoghe. Nonostante questa adesione massiccia, il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, stima per il 2019 un risparmio per i conti pubblici di oltre un miliardo di euro.
Eppure sono in molti a sostenere che il reddito di cittadinanza (rdc) abbia bisogno di un tagliando. Non tanto per il problema dei “furbetti” che fanno notizia quando vengono scoperti dai controlli della Guardia di finanza.
Qui c’è da chiarire un dato fondamentale: quando si afferma che il 70% dei controllati è risultato non in regola con i requisiti bisogna tenere conto che questa percentuale è calcolata su una platea selezionata in base ai criteri di rischio. In altre parole i controlli si concentrano su coloro che in base ad alcuni parametri hanno una maggiore probabilità di essere trovati in difetto e quindi la quota è molto sovrastimata rispetto al totale dei beneficiari.
I problemi più gravi riguardano alcuni aspetti strutturali della misura, che paga un’elaborazione frettolosa e soprattutto una commistione tra lotta alla povertà e politiche per il lavoro che da subito gli esperti avevano indicato come ingestibile e foriera di effetti contraddittori.
Per quanto riguarda il sussidio economico, l’Alleanza contro la povertà – il cartello di organizzazioni della società civile da anni in prima linea su questo fronte – ha chiesto di “mettere in atto correttivi volti al raggiungimento delle persone escluse o penalizzate dai parametri di accesso e di erogazione della misura, come i senza fissa dimora”. E inoltre di indirizzare i risparmi di spesa “alla necessaria rimodulazione della scala di equivalenza, attualmente penalizzante per i nuclei numerosi e con minori, e all’estensione della misura ai cittadini extracomunitari, discriminati in modo inaccettabile dalla normativa”. Paradossalmente, infatti, i meccanismi burocratici previsti finiscono per tagliare fuori proprio coloro che istintivamente consideriamo poveri per antonomasia (i senza fissa dimora) e allo stesso tempo i parametri di calcolo del sussidio e le barriere di accesso artificiosamente costruite danneggiano proprio i gruppi umani che secondo tutte le indagini sono a maggior rischio povertà: le famiglie numerose con minori e gli extracomunitari.
Sul versante del lavoro, il giudizio del recente Rapporto Svimez – che pure ritiene utile il rdc – è pesante quanto difficilmente contestabile: l’impatto sull’occupazione finora è stato nullo.
Del resto solo all’inizio di settembre sono partite le prime chiamate dei Centri per l’impiego (con sette mesi di scarto rispetto all’erogazione del sussidio economico) e quindi bisognerà verificare l’andamento dei prossimi mesi. A causa di questo ritardo, già nella Nota di aggiornamento al Documento di economia finanza, approvata dal Consiglio dei ministri il 30 settembre scorso, il governo aveva spostato al prossimo anno l’impatto del rdc sull’occupazione. Peraltro tale impatto si manifesterà inizialmente con un aumento del tasso di disoccupazione, che nel 2020 l’esecutivo stima al 10,2%. Un dato apparentemente straniante che si spiega con un criterio statistico: sono considerati disoccupati coloro che cercano un lavoro e non gli inattivi. Quando in virtù delle regole connesse al rdc alcune centinaia di migliaia di inattivi saranno impegnati nella ricerca di un impiego, il primo effetto sarà un aumento del tasso dei disoccupati, ovviamente solo in termini statistici. Ecco perché l’incremento della disoccupazione registrato dall’Istat nello scorso mese di ottobre potrebbe essere almeno in parte ricondotto all’avvio di questo processo.
Resta il fatto che il rdc non sarà mai uno strumento preferenziale per creare occupazione.
Il contrasto della povertà e le politiche attive del lavoro richiedono strumenti specifici e differenziati per il semplice motivo che la povertà è “multidimensionale”, ha tanti aspetti e la mancanza di occupazione è solo uno di questi.
Si è cercato in parte di rimediare individuando, all’interno del provvedimento, due distinti percorsi: uno che porta al “patto di inclusione sociale” – sostanzialmente ripreso dalla precedente esperienza del Rei – e un altro che conduce al “patto per il lavoro”. Ma le persone realmente “occupabili” si sono rivelate una minoranza e solo un 30% è stato indirizzato ai Centri per l’impiego.
Una messa a punto del provvedimento è quindi doverosa. Anche per evitare che le contraddizioni obiettivamente presenti diventino il pretesto per azzerare tutto e rinnegare il cammino faticosamente compiuto in questi anni, a partire dalla proposta del reddito d’inclusione sociale, lanciata dall’Alleanza contro la povertà nell’ormai lontano 2013.