Il dovere di votare è Costituzione
Una lezione in classe sulla democrazia ateniese e l'attualità della chiamata alle urne. Perché, da cristiani, è fondamentale andare a votare, per non lasciare "deleghe in bianche". L'editoriale di Stefano Bertin.
La lezione non decolla: la democrazia ateniese sembra non avere molte possibilità di suscitare attenzione in un’aula di quattordicenni.
Prima che la situazione s’impantani tento la mossa d’attacco. «Luigi perché stiamo perdendo tempo su ’sta roba?» Luigi non si lascia spiazzare e risponde scaltro «…perché i Greci hanno inventato la politica». La gioia per la pronta risposta mi distrae e Giorgio non perdona: «Bello schifo hanno inventato!» Il guanto è gettato e non posso sottrarmi alla sfida. «Non son d’accordo: la politica è importante. Si occupa della vita dei cittadini e spetta a tutti loro fare in modo che sia per il bene comune. Per esempio col voto, come noi adulti faremo il 4 marzo».
Adesso Luigi mi guarda strano e spara «Ma lei va ancora a votare?». Confesso che la domanda mi sorprende. Cerco solidarietà nei volti in classe, ma in essi leggo lo stesso stupore che sono abituato a vedere quando si scopre che vado “regolarmente” a messa. Freno la lingua e mi limito a chiedere perché non dovrei andare a votare. Si alza una foresta di mani, a cui corrisponde una cascata di “motivazioni”: si parte dai politici corrotti e ovviamente strapagati; si prosegue sul sentiero della politica che fa solo gli interessi dei potenti; col finire nell’incapacità dei governi di rispondere ai problemi della sicurezza, disoccupazione e immigrazione. L’epilogo viene lasciato a Giorgio: «È tutto inutile. Tanto non cambia mai niente!».
A quattordici anni non guardi i dibattiti in tv, né leggi i giornali, quindi le opinioni riportate sono lo specchio dei discorsi dei grandi. Nel mondo degli adulti, infatti, non è di moda presentare il voto come un dovere costituzionale, quanto piuttosto rivendicare l’astensione come scelta matura e ponderata. Un trend che unifica il bar sotto casa con i talk show televisivi. Mi spiace ma, come cantava qualcuno, non mi lego a questa schiera.
Non votare è un modo strano di protestare. Si lascia che a decidere siano altri. Di fatto è una delega in bianco: un vuoto che, per forza di cose, verrà riempito dall’iniziativa di chi invece partecipa al gioco. È anche alquanto difficile leggere l’astensione come volontà di cambiare. Paradossalmente, astenersi equivale a dire che ci sta bene che la situazione presente non muti. Chi si estranea, anche se non vuole, garantisce lo status quo.
Non votare vuol dire non fare i conti con la realtà. Il cittadino responsabile discerne tra le proposte ora presenti sul campo, cerca tra esse il massimo del bene possibile ed eventualmente s’impegna a proporne e sperimentarne di migliori.
E non è vero che tutte le proposte politiche sono uguali: tolta la fuffa della polemica elettorale, troviamo nei vari schieramenti visioni e soluzioni profondamente diverse sul futuro dell’Italia e su come affrontare i problemi reali.
Non votare significa rinunciare a scegliere. Le ragioni possono essere molteplici, ma alla fine si riducono a un non prendere posizione. Mettersi sugli spalti e vedere come va a finire, riservandosi il diritto di commentare da fuori, perché non ci si è compromessi. Ma in questo modo, più che alle anime belle, si rischia di assomigliare agli “ignavi” di cui ci parla con disprezzo Dante, il quale pagò con l’esilio la sua scelta politica.
Settant’anni fa la Costituzione sanciva il diritto al voto come un “dovere civico”. Un dovere ancor più ineludibile in un contesto complesso (e confuso) come quello odierno. Un appuntamento a cui arrivare informati, per dire che noi ci siamo, siamo interessati ai problemi e alle questioni che ci circondano, e ancora vogliamo partecipare all’edificazione del futuro del nostro paese.
Stefano Bertin