Fede, letteratura e scienza: un dialogo ininterrotto. Come gli scrittori hanno rappresentato i limiti di una scienza diventata divinità
Quanto la scienza e la letteratura si sono influenzate a vicenda?
Quanto la scienza e la letteratura si sono influenzate a vicenda? Quanto gli scrittori -tra cui molti scienziati- hanno messo in guardia dalla divinizzazione di un progresso divenuto un divoratore dei propri figli?
“Basiamo le nostre raccomandazioni sulla convinzione che i pericoli estremi per l’umanità insiti in questa proposta superino completamente qualsiasi vantaggio militare che potrebbe derivare da un simile sviluppo”. Il comitato consultivo di scienziati che votano contro il programma accelerato per la superbomba, racconta Jeremy Bernstein in “Oppenheimer. Ritratto di un enigma” (Castelvecchi, 224 pagine, 17,50 euro) affida allo scienziato recentemente tornato all’attenzione mediatica, grazie anche al film di Nolan, la stesura del documento. Oppenheimer ha sostenuto e diretto l’’esplosione nucleare ad Alamogordo, ma si rende conto che una superbomba significa devastare aree gigantesche e uccidere migliaia di persone. Un uomo che ammira il grande poeta Eliot, che scrive anche lui poesie e studia il Bhagavadgītā, alla visione dell’esplosione non può che affermare, come Vishnu: “Ecco, ora sono diventato morte, distruttore di mondi”.
Osannato, invidiato, sospettato di essere una spia o comunque di simpatie comuniste negli Stati Uniti della caccia alle streghe, messo da parte, riabilitato solo post mortem da Biden, indeciso, contraddittorio. Apparentemente. Perché è uno dei pochi a rendersi conto che la scienza fatta dio, come la divinità indiana può diventare distruzione inenarrabile: non nascerebbe più nessun Omero a cantare una ulteriore guerra.
I dubbi di Oppenheimer diventano gli inquieti interrogativi che Marco Pivato, divulgatore scientifico, tragicamente scomparso nel 2022, pone a sé e agli altri in “Ascoltami, non dire nulla” (Vallecchi, 78 pagine, 14 euro), racconto ritrovato nel computer dopo la sua morte. Qui la scienza non è un deterministico “per ora no, però prima o poi sapremo tutto”, ma una sorta di dinamica, instabile, contraddittoria sintesi di indeterminazione quantistica, relatività einsteiniana, ricerca di Dio, ma anche, occorre dirlo, polemiche contro una fede che l’autore legge a volte come negatrice della “libertà di indagine e conoscenza”. Poesia, filosofia, religione, amore precipitano in una soluzione instabile in cui emerge la presa di coscienza della impossibilità di sapere e la “tentazione” di coinvolgere l’interpretazione del creato dei Veda e del Vangelo. E come lo scienziato anche Pivato deve ammettere che la scienza da sola non riesce a penetrare l’essenza delle cose. Accade anche in “Le rivelazioni” (Carbonio, 409 pagine, 18 euro) di un altro scienziato, -peraltro assai giovane-, e scrittore, Eric Hoel, dove la scienza tenta di ostacolare qualsiasi forma di ricerca, in questo caso su cosa sia la coscienza, non ritenuta utile, anzi, dannosa per i suoi legami con altro che non il profitto e il mercato.
I limiti di un oggettivismo onnivoro e pseudo-scientifico sono presenti anche nel primo dei due romanzi postumi del grande scrittore americano Cormac McCarthy, “Il passeggero” (Einaudi, 385 pagine, 21 euro) in cui la scienza da sola non solo non può nulla, ma, come nel caso del libro su Oppenheimer, corre il rischio di sopprimere il suo artefice. Solitudine, incubi, schizofrenia, senso di inquieto fallimento rappresentano qui i frutti di una vita intesa come produzione, consumo, fine. La tentazione è quella di leggere, come accadde molti anni fa con la anti-psichiatria di Cooper, la follia come liberazione da una vita meccanica e senza senso. Non solo disperazione: nel romanzo si fa strada la ricerca di altro che non la materia. Sembra quasi che in questa palude impossibile da essere completamente narrata non sia la scienza a rispondere alle domande di senso, ma solo l’ascolto delle ragioni profonde, quelle interiori e sostenute dalla speranza in Altro.