È possibile essere giornalisti di speranza? Giubileo, il papa incontra migliaia di comunicatori
Se chiedessimo a ciascuno di voi lettori quali sono le principali caratteristiche di un giornalista riceveremmo in cambio, probabilmente, una ridda di termini poco lusinghieri (giusto per usare un eufemismo).
Se poi continuassimo chiedendoci quanto i giornali siano utili oggi, avremmo risposte contrastanti, ma alla fine solo una piccola percentuale sosterrebbe con forza l’importanza di questi organi di informazione rispetto ad altri mezzi oggi sempre disponibili e soprattutto gratuiti, come siti web o trasmissioni televisive. Sparigliando le carte, questa settimana vi rivolgiamo l’invito a pensare al rapporto tra giornalisti e speranza. L’occasione viene dal duplice appuntamento di questi giorni: venerdì 24, san Francesco di Sales, ricorre la memoria del patrono dei giornalisti; da quel giorno a domenica 26, si tiene a Roma il primo grande appuntamento del Giubileo 2025 – “Pellegrini di speranza”, appunto – rivolto a tutto il mondo della comunicazione. Se pensate che l’accostamento giornalisti-speranza sia un ossimoro, siete in buona compagnia e avete la nostra comprensione. Tuttavia, non possiamo rimanere ancorati a un modo oramai obsoleto di interpretare una professione che è anche un tassello fondamentale nel complesso mosaico della democrazia. Da tempo infatti, l’ampia maggioranza di chi fa questo mestiere ha compreso che non esiste più un mondo in cui alcuni accedono in maniera privilegiata a informazioni che poi condividono su ampia scala attraverso i media. Oggi le informazioni sono spesso condivise in partenza, il confine tra redazioni e pubblico è molto più sfumato, saper scrivere bene una notizia, renderla comprensibile e ben circostanziata, non basta più. Da qui la crisi di identità di molti tra noi e la fatica di tanti media a riposizionarsi in una società in rapidissima evoluzione. Allo stesso tempo, va detto che sempre più le testate – siano esse grandi o piccole – cercano l’incontro e il confronto con il pubblico, in uno scambio reciproco di idee, visioni, progetti, che possano costruire. L’idea che un giornale sia una comunità (intellettuale) è sempre più radicata e ognuno, con i mezzi a sua disposizione, tenta ogni giorno di costruire questa comunità. È proprio in questa declinazione di un media, che il concetto di speranza accostato al giornalismo assume ancora più potenza. Essere giornalisti di speranza non significa infatti confezionare prodotti zuccherosi, naïf, o scrivere che “tutto andrà bene” come accadeva in pandemia. In una recente intervista, l’inviato di Avvenire Nello Scavo, ha spiegato che la speranza in questo mestiere si esercita esattamente «dove le cose non vanno bene, con la capacità di scorgere, di fronte al male, mettendoci a rischio, storie, anche piccole, di riscatto, cambiamento, futuro». Una ricerca, questa, che anzitutto rende giustizia alla verità, perché la realtà non è mai tutta bianca o tutta nera. Ma, in secondo luogo, si tratta di una ricerca che risponde a una precisa esigenza di una comunità: confrontarsi sul futuro e iniziare a progettarlo insieme e per fare questo occorre nutrire una solida speranza che, nonostante tutto, l’umanità è in cammino verso il bene, anche se le stesse cronache rendono quei impossibile crederci. Tutto questo chiede ai giornalisti di tornare a consumare le suole delle scarpe, come ha più volte invitato papa Francesco a fare. Più che il comunicato stampa, c’è l’incontro alla base di una notizia, le redazioni da soggetti a volte indefiniti sono oggi chiamate a dimostrarsi in tutta la loro umanità, mettendosi nei panni dei protagonisti delle loro storie, senza temere di sperimentare la necessaria compassione. D’altro canto i giornalisti sono chiamati oggi a essere quanto mai professionali e rigorosi, solo la qualità potrà salvare il loro lavoro dalla marea montante di un “digitale” che appare sempre più deregolato e quindi esposto a fake news e manipolazioni in nome di nuovi poteri forti.