Cassa Depositi e Prestiti. Soldi pubblici per Taranto, non è così facile
Il sentiero è strettissimo per tutti. I soldi raccolti dagli italiani devono essere impiegati per sostenere l’economia ma non in società con perdite probabili. Il pressing sull’Acri, l’associazione delle fondazioni bancarie, è forte per trovare una soluzione che ora non è esplicitata; la magistratura sta guardando bene tutte le mosse effettuate dal gruppo anglo-indiano che da multinazionale si sposta dove trova le migliori condizioni. Lavoratori, città e fornitori vivono l’affanno di anni di incertezza. La strada della nazionalizzazione non è esclusa, non come assetto definitivo quanto per guadagnare tempo a una soluzione credibile
Anche nella crisi dell’ex-Ilva di Taranto è stato sollecitato un intervento – d’emergenza o di più lunga durata – della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). Non è la prima volta e lo stesso viene chiesto per Alitalia e per altre crisi industriali e occupazionali. Sembra a tutti una soluzione a portata di mano. In fin dei conti la ricca Cdp è controllata per l’82,77% dallo Stato, quindi dalla collettività. La restante quota azionaria (16%) è in mano alle Fondazioni ex bancarie e l’ultimo pezzettino sono azioni proprie (cioè azioni possedute dallo stesso gruppo Cdp).
Perché Cdp è restia a risolvere con i soldi pubblici un caso così eclatante e doloroso di crisi, di lavoratori e famiglie in difficoltà, sostituendosi al fuggitivo gruppo Arcelor Mittal? La risposta è complessa se si considera la necessità di un intervento pubblico da una parte e – dall’altra – la tutela dei risparmi raccolti da 27 milioni di italiani.
Innanzitutto gli azionisti di minoranza Fondazioni ex bancarie (Cariplo, Crt solo per citarne alcune) sono soggetti privati che hanno l’obbligo di investire il patrimonio maturato nei decenni da quelle casse di risparmio che operavano in ambiti locali. Se una Fondazione ex bancaria dovesse dilapidare il suo patrimonio (ne sanno qualcosa a Siena per fare un esempio ma non è l’unico) le comunità di territorio perderebbero un motore economico e di ricerca, di tutela della popolazione debole e di salvaguardia culturale. Quindi con quei soldi investiti nella Cdp non si può scherzare. E la stessa Cdp non può perdere soldi raccolti da milioni di cittadini.
Forse non è chiaro a tutti ma quando si comprano prodotti postali in verità, quasi sempre, si comprano obbligazioni della Cassa Depositi e Prestiti e gli italiani – via uffici postali – e gli investitori hanno affidato ben 260 miliardi. Neppure con quei soldi, che ovviamente sono garantiti nel rimborso dallo Stato, si può correre il rischio di perderli indebolendo il patrimonio di un soggetto pubblico.
Perché è così complicato l’intervento della Cassa depositi e prestiti? Perché non subire perdite è prudenza generale e perché le Fondazioni, che hanno il diritto di nominare il presidente della Cdp, hanno fissato un vincolo che non si investa in aziende in dichiarata perdita. L’acciaio non è un grande affare in questo momento.
“Investire in aziende come Ilva – ha dichiarato l’ex ministro dell’Economia Giovanni Tria – non è fra i compiti della Cassa. Cdp non può essere utilizzata per interventi di cui non è sicuro il risultato. Occorre essere molto cauti, c`è in palio il risparmio postale degli italiani”. In linea di massima sono tutti d’accordo: “Il Governo non intende guardare a Cassa Depositi e Prestiti per risolvere questioni contingenti ma in una prospettiva di ampio respiro e per creare nuova occupazione” ha assicurato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, intervenendo alle celebrazioni dei 170 anni della società.
Il sentiero è strettissimo per tutti. I soldi raccolti dagli italiani devono essere impiegati per sostenere l’economia ma non in società con perdite probabili. Il pressing sull’Acri, l’associazione delle fondazioni bancarie, è forte per trovare una soluzione che ora non è esplicitata; la magistratura sta guardando bene tutte le mosse effettuate dal gruppo anglo-indiano che da multinazionale si sposta dove trova le migliori condizioni. Lavoratori, città e fornitori vivono l’affanno di anni di incertezza. La strada della nazionalizzazione non è esclusa, non come assetto definitivo quanto per guadagnare tempo a una soluzione credibile.