Bernardi (storico): “Senza la politica agricola comune non ci sarebbe l’Ue”
Gli agricoltori protestano in tutta Europa. Alti costi di produzione, peso della burocrazia, concorrenza, filiera commerciale tutt’altro che equa. Inoltre ci sono obblighi imposti dal Green Deal, per rendere il settore maggiormente sostenibile e rispettoso dell’ambiente. Problemi di oggi ma che partono da lontano. Ne parliamo con un esperto, Emanuele Bernardi, docente alla Sapienza di Roma
I trattori prendono d’assedio varie città in Europa, arrivano a Roma, assediano il Parlamento europeo a Bruxelles e Strasburgo. E approdano persino nel tempio della musica italiana: il palco dell’Ariston di Sanremo. Sulle motivazioni di questa mobilitazione europea si sono spesi fiumi di inchiostro. Anche perché il malessere nel settore primario non è vicenda di oggi. Ne parliamo con Emanuele Bernardi (nella foto), docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma.
Professore, cosa ci potrebbe insegnare la storia italiana su queste vicende?
Le contestazioni contadine contro governi, rappresentanze sindacali (in particolare la Coldiretti) e istituzioni europee affondano le loro radici a partire dalla fine degli anni Sessanta del Novecento, quando si aprì una crisi economica destinata a incidere pesantemente sull’Italia. È in quel decennio che si generò un forte passivo nella bilancia agro-alimentare e si manifestarono già molti dei problemi odierni (costo del lavoro, inquinamento, predominio della grande distribuzione). Fu allora che si svilupparono forme, anche eversive, di protesta, come i Comitati di azione agraria, ricordati addirittura nel memoriale della prigionia di Aldo Moro. Alla Fiera di Verona, nel marzo del 1968, gruppi di agricoltori della Valle Padana e del Veneto manifestarono in modo violento il proprio malcontento. Era un movimento disarticolato, che usava già allora metodi poco ortodossi (come il lancio delle uova, il rovesciamento del latte nelle strade, l’immagine della bara a significare la morte dell’agricoltura) nel quale convivevano figure nobiliari (come il principe Ruspoli) e semplici agricoltori, accomunati dalla volontà di mettere in discussione non solo le regole europee ma l’intero sistema della rappresentanza.
Lei ha studiato a fondo la figura di Giovanni Marcora, ministro dell’Agricoltura italiana in anni particolari, dal 1974 al 1980, noto per essersi battuto per promuovere agricoltura e allevamento nazionali in Europa nell’ambito della Pac, la Politica agricola comune. Quali i principali problemi affrontati allora?
Allora Marcora dovette affrontare nodi molto complicati da sciogliere, che erano oggetto peraltro di intense mediazioni tra i Paesi della Comunità europea e di critiche nel Parlamento nazionale. Far convergere agricolture diverse fra di loro era un compito difficile; ma a questa difficoltà oggettiva si aggiungevano rapporti di forza intraeuropei sfavorevoli ai prodotti mediterranei, osteggiati anche dalla concorrenza americana. I fondi della Pac coprivano allora quasi il 70% del bilancio europeo. E venivano usati soprattutto per difendere i prodotti cerealicoli e zootecnici. L’allargamento a Paesi mediterranei ex-totalitari, come Spagna, Portogallo e Grecia, complicava ulteriormente la situazione delle esportazioni italiane, soprattutto di quelle del suo Mezzogiorno. Marcora s’impegnò costantemente in numerose riunioni dei Consigli agricoli a Bruxelles per richiamare i suoi colleghi alla solidarietà e alla cooperazione, nella convinzione che ad agricoltori e cittadini dovesse essere data una risposta costruttiva e concreta, per difendere la stessa Europa dai venti insidiosi del terrorismo e dei movimenti – peraltro ancora minoritari – che contestavano il sistema della rappresentanza politica, a Roma come a Bruxelles. Il suo era un compito difensivo degli interessi nazionali che riteneva funzionale alla costruzione dell’Europa, al rafforzamento della sua legittimità.
Problemi tutti risolti, oppure tornano al pettine vecchi nodi?
La situazione italiana era ed è specchio dell’Europa. La marcia dei trattori simboleggia un po’ il ritorno di antiche questioni, che in verità non interessano soltanto gli agricoltori di un Paese ma tutti i cittadini europei. Quel che sta accadendo non è un evento eccezionale, quanto piuttosto sembra avere dei caratteri “ciclici” e ha a che vedere col modo in cui è stata costruita, proprio a partire dall’agricoltura, la Comunità europea. Certo, attualmente ci si trova di fronte a una sfida non semplice: garantire redditi adeguati e spingere sulla transizione ecologica alla luce di direttive europee spesso iperburocratizzate. Ma mi pare che questi movimenti – a differenza di quelli degli anni Settanta – non siano diretti contro la Pac, anzi, essi si aspettano risposte proprio dall’Europa. L’agricoltura è stata infatti il primo settore in cui la politica comune è risultata vincolante e si è pienamente realizzata. La Pac, ancora più della Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), è stata fondamentale nell’architettura europea, come dimostra anche il recente lavoro di Giuliana Laschi, L’Europa agricola. Dalla fame agli sprechi (il Mulino). Si potrebbe sostenere che, nonostante contraddizioni e limiti, senza una politica agricola comune oggi non ci sarebbe l’Unione europea.