A Pasqua la guarigione dall’incapacità di comunicare
Nel battesimo che i cristiani celebrano per sperimentare la loro personale Pasqua, il loro passaggio “dal buio alla luce” – questo il sottotitolo del film di Marie Heurtin –, cioè il passaggio a una rinnovata esistenza spirituale, è incluso il rito dell’“effatà”, parola ebraica che Gesù rivolgeva proprio ai ciechi e ai sordo-muti, per guarirli e renderli finalmente figli a lui gemellati, abilitandoli ad ascoltare il dirsi del Padre suo e a rispondergli senza più alcuna inibizione. Dio sa quanto bisogno abbiamo di qualcosa del genere oggi, nell’epoca in cui più che mai rinunciamo alla parola, al dialogo, al contatto effettivo, alla relazione autenticaanche tra di noi, magari appiattendo lo sguardo su un algido ancorché colorato touch screen e digitandovi sopra non parole vere, ma una serie di sbrigativi acronimi e di emoticon standardizzate
“Oggi è arrivata una nuova bambina. È come me, sorda e cieca. Aspetta. Cosa aspetta? Aspetta la parola. Lesorelle gliela insegneranno, come tu l’hai insegnata a me. Diventeremo amiche. Come te e me, che eravamo più che amiche”: sono le ultime battute di un film ambientato in un convento di suore francesi che sul finire dell’Ottocento ospitavano ed educavano ragazzine sordo-mute. La giovane protagonista le proferisce a gesti sulla tomba di chi le aveva insegnato a parlare in un modo nuovo e per tutti inopinato. L’ho visto durante la notte tra il venerdì e il sabato santo, rompendo il digiuno televisivo che m’ero imposto sino a quel momento. Una visione provvidenziale, come una vera e propria parabola di ciò che a Pasqua ricordiamo, molto più che i soliti colossal americani dedicati alla morte e alla risurrezione del Cristo.
La storia della piccola Marie Heurtin e di suor Marguerite – la prima cieca e audiolesa sin dalla nascita e la seconda disposta anche a costo della propria vita a investire ogni sforzo e persino la malferma salute pur di apprendere il linguaggio dei sordo-muti e di tradurlo da gestuale a tattile per poi trasmetterlo a una non vedente –, realmente accaduta e raccontata con grande poesia ed efficacia artistica,m’è sembrata difatti una parafrasi dell’intera storia della salvezza e della vicenda del Maestro di Nazaret, che secondo l’annuncio evangelico è il Verbo di Dio che si umana e si mette nei panni – stretti e logori – degli esseri umani, per aiutarli a superare il loro peggiore limite, quel silenzio assordante in cui erano scivolati con l’antico peccato, finendo per non sentire più la Parola divina, o per travisarla rovinosamente.
Non per niente sul Golgota il Crocifisso prega: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Il peccato da “misericordiare” – direbbe papa Francesco – non è un qualsiasi reato, non la violazione di qualche altissima legge, non la ribellione contro l’Altro o il tentativo titanico di emanciparsene, ma è come un malaugurato trauma all’organo dell’udito (“parakoé” si legge nelle lettere di san Paolo), che costringe chi ne rimane ferito a non poterne e a non saperne più ascoltare il dirsi paterno, ad ignorarne l’autentico senso, a fraintenderne il significato, tanto da capire faraone ogni volta che quell’Altro si proclama Signore, o padrone ogni volta che si dichiara Padre. Sino a non provare più alcuna positiva sensazione per la sua presenza e a perdere ogni sentimento filiale nei suoi confronti. E sino a ritrovarsi imprigionatonell’autoreferenzialità più che incardinato nell’autonomia, confinato in una fratricida irresponsabilità che fa misconoscere anche il valore dell’esser legati gli uni con gli altri: “Sono forse il custode di mio fratello?”, disse già Caino per dissimulare l’assassinio di Abele.
Solo il dono della Parola può far guarire da questo patologico isolamento: tornare a udirla è essenziale per poter ritornare a pronunciarla, rispondendo a chi si rivolge a noi, interloquendo con chi ci interpella, comprendendo appieno e interpretando correttamente ciò che ci vien confidato. E per tornare a dialogare amichevolmente anche con chi presumevamo – ammutoliti nell’afasia – fosse Ineffabile.
Dio invece si dice all’essere umano, in Cristo Gesù. Il che equivale a ridargli la parola nell’unico modo in cui, dal di dentro della sua condizione, l’essere umano può riceverla: trasmettendosi con il tocco di Gesù, comunicandosi tramite la sua umanità, in questa Dio stesso scoprendo la maniera più adatta per aggirare l’ostacolo, per scavalcare le barriere, per riuscire a suscitare una risposta nonostante il velo sugli occhi e i timpani forati e le corde vocali atrofizzate. Condividendo il disagio dei ciechi e dei sordo-muti, al fine di escogitare il modo di far loro comunque vedere l’invisibile, sentire l’inaudito, riecheggiare l’indicibile.
Nel battesimo che i cristiani celebrano per sperimentare la loro personale Pasqua, il loro passaggio “dal buio alla luce” – questo il sottotitolo del film di Marie Heurtin –, cioè il passaggio a una rinnovata esistenza spirituale, è incluso il rito dell’“effatà”, parola ebraica che Gesù rivolgeva proprio ai ciechi e ai sordo-muti, per guarirli e renderli finalmente figli a lui gemellati, abilitandoli ad ascoltare il dirsi del Padre suo e a rispondergli senza più alcuna inibizione. Dio sa quanto bisogno abbiamo di qualcosa del genere oggi, nell’epoca in cui più che mai rinunciamo alla parola, al dialogo, al contatto effettivo, alla relazione autenticaanche tra di noi, magari appiattendo lo sguardo su un algido ancorché colorato touch screen e digitandovi sopra non parole vere, ma una serie di sbrigativi acronimi e di emoticon standardizzate.