Una porta sempre aperta? Differenza sì, ma non divisione
Un mondo a porte aperte non è senza conflitti, ma permette di viverli con rispetto
Se nel quartiere chiedete qual è la strada pedonale più veloce e sicura per arrivare in “centro”, vi consiglieranno di approfittare dei cancelli quasi sempre aperti della scuola e di passare attraverso il suo cortile. E così ogni giorno, davanti all’atrio dell’istituto, si può assistere a un andirivieni continuo di persone: bambini con o senza genitore al seguito, giovani trafelati in corsa verso la stazione e anziani a passo tranquillo, con l’immancabile carrellino della spesa.
La cosa si limiterebbe a essere un simpatico tocco di colore, se non fosse che a volte i “passanti” hanno poca consapevolezza di essere in un ambiente scolastico e non in una comune strada comunale. C’è chi non sa trattenere l’infausto vizio del fumo, chi sfreccia acrobaticamente in bicicletta, chi passa sotto le finestre delle aule urlando dentro il cellulare. Si vocifera che una signora abbia picchiettato sul vetro, perché aveva riconosciuto il nipote tra gli alunni in classe.
La situazione ha dato spunto a un bonario dibattito tra docenti e alunni durante l’intervallo. All’inizio, sembrava prevalere la posizione radicale dei cancelli chiusi: si apre solo agli autorizzati. Qualcuno, più saggiamente, ha fatto poi notare che in tal modo il cancello sarebbe continuamente in funzione, rischiando di veder fondere il motore in pochi giorni; così come è alquanto oneroso e complicato tenere un sorvegliante fisso all’entrata. A queste ultime sensate osservazioni è sorta un’obiezione: che senso ha un portone quasi sempre aperto?
È una rivelazione. Non seguo più la discussione e resto fisso sulla domanda, perché illumina il clima che stiamo tutti vivendo. Rischiamo, infatti, di interpretare le cose attorno a noi in modo restrittivo e negativo. Una porta non nasce al solo scopo di limitare o bloccare l’accesso. Penso alle nostre case, all’interno delle quali ci sono più porte, quasi sempre aperte. Qui le porte invitano a entrare nelle varie stanze, a sintonizzarsi sulla loro particolarità: alla estroversione del salotto, all’utilità del bagno, all’intimità della camera da letto.
La soglia non segna per forza una separazione, ma rivela una distinzione, la quale è la condizione necessaria perché avvenga l’incontro. Le Chiese hanno da sempre le porte aperte, che molti hanno varcato anche per trovare asilo e protezione. Sono porte curate, le quali aiutano a cogliere la sacralità del luogo. Quelle delle grandi cattedrali sono famose per la loro bellezza e non per essere limiti invalicabili: in esse si annuncia visivamente la storia della Salvezza e non minacciosi moniti di girare alla larga.
Una porta aperta non è una contraddizione, ma la possibilità di segnare una doverosa differenza, senza che questa diventi necessariamente una divisione. Riconoscersi diversi permette infatti il dialogo, cioè la ricerca di una sintesi che ci comprenda e ci superi. La disponibilità al confronto prevede apertura di credito e assenza di arroganza verso l’altro, anche se ciò può esporre alla sconfitta.
Un mondo con le porte aperte non è per forza un mondo senza conflitti, ma sicuramente permette di viverli con maggiore serenità e rispetto reciproco. Uscire dal tunnel della paura e della diffidenza è una scelta scomoda, perché l’incontro e il dialogo con l’altro avviano un processo di ricerca della verità e mettono in discussione certezze e timori. Ma è una scelta provvidenzialmente obbligata: l’alternativa delle porte chiuse, magari a doppia mandata, ci rinchiuderebbe tutti in una triste prigione.