La diversità? È ricchezza
La diversità fa parte del nostro dna
Veneziani gran signori / Padovani gran dottori /Vicentini magna gati /Veronesi tuti mati. / Udinesi castelani, co’i cognomi de Furlani. / Trevisani pan e tripe, / Rovigoti baco e pipe. / I Cremaschi fa cogioni, / i Bresàn taja cantoni, ghe ne ancora de più tristi. / Bergamaschi brusacristi, / E Belun? Pore Belun, te s’è proprio de nisun. /
Nei filò non poteva mancare questa filastrocca, imparata a memoria da grandi e piccoli, accompagnata con un’armonia improvvisata, saltando e ballando. A forza di risate, si era in grado di collegare ogni frase ad una storia. Per esempio, i poveri Bergamaschi erano brusacristi per un loro concittadino della fazione ghibellina, che nel 1444 bruciò un crocifisso perché sosteneva appartenesse all’altra parte politica, quella guelfa. Poveretto, aveva confuso la fede politica con quella religiosa. Cosa poi centrassero i bergamaschi con i veneti, anche questo si sapeva: erano sotto la Serenissima, la Repubblica di Venezia, in buona, o cattiva, compagnia di bresciani e cremaschi.
Nella filastrocca, com’è evidente, nessuno veniva risparmiato da lazzi e frizzi, malizie e malelingue. Evidentemente, chi è oltre il confine del proprio orticello va tenuto a distanza; la diversità non è una virtù. Eppure, ci siamo sempre nutriti di diversità. Basterebbe considerare la parlata veneta, diversa da zona a zona. Se ne ha una riprova nel Dizionario dialettale della Valbrenta, a cura di Giuseppe Gheno, dove, ad esempio, c’è da sbalordirsi per i diversi modi di dire “gioco del nascondino”, in un’area lunga appena 15 chilometri che va da Campese a Primolano: bandoscònto, scòndarse, scònderse, rognascòndarse, scurabil, lile, gnave, cucarèl, cuco, cu, tana.
La diversità fa parte del nostro dna. L’uniformità non ci piace. La diversità è fantasia e ricchezza; l’uniformità è monotonia e pochezza.