Italiani leggete di più, per favore. Ne va del futuro del nostro paese
Leggere, leggere, fortissimamente leggere! Le grandi iniziative librarie (dal Festival della letteratura di Mantova al Salone del libro di Torino) cercano in tutti i modi di rianimare un popolo italiano che boccheggia, infischiandosene dell’articolo 34 della Costituzione che raccomanda l’istruzione come garanzia per la libertà (libertà di testa e libertà da soprusi).
Se “leggere è una festa”, come continuano a dire i librai, gli italiani hanno poca voglia di festeggiare, visto che solo il 41 per cento legge almeno un libro all’anno.
A tenere in piedi la baracca sono le ragazze, con divari vistosi rispetto ai maschi: il 65 per cento contro il 48. In veste di addetto in sala di rianimazione, ci prova anche Giovanni Floris nel suo Ultimo banco, pubblicato dalla nuova casa editrice Solferino. Dice che gli fa paura «l’uso povero delle parole, la semplificazione estrema del linguaggio». La sua idea è che l’ignoranza non è più un tabù, anzi sembra un modo per essere popolari.
E così «a guidare il Paese rischiamo di mandare quelli dell’ultimo banco», impreparati, improvvisati, superficiali. Come «gli ultimi arrivati della nostra classe dirigente, i più giovani, che dopo aver chiesto a gran voce che gli venisse passato il testimone, non sono capaci di correre». Se poi si decidono a correre, come sembra, sono delle anatre zoppe.
L’asino di turno trova sempre qualche giustificazione per non faticare sui libri: tira fuori l’esempio di uno di successo che ha fatto solo la quinta elementare, o, se deve studiare teologia, che gli apostoli sapevano solo di reti da pesca.
Trova un alleato nel telefonino collegato a internet per non mandare a memoria niente, neanche le tabelline per saper fare di conto. Se non avviene una sterzata verso qualche buona pagina di libro, tiriamo su una generazione che sa tutto di niente e niente di tutto.