Siria, la vita quotidiana tra il Covid e la guerra: “Le sanzioni colpiscono i civili più che il regime”
Giorgio Squadrani, rappresentante per il Medio Oriente della ong Armadilla, vive a Damasco e racconta le dure condizioni di vita nel paese tra scarsità di generi alimentari, mancanza di carburante e le strutture sanitarie al collasso: “Le misure di prevenzione per la pandemia si scontrano con le necessità di sopravvivere della popolazione”
“In Siria si sta consumando la tempesta perfetta: alle conseguenze di dieci anni di guerra oggi si è aggiunta la pandemia. La popolazione vive in condizioni durissime, c’è scarsità di generi alimentari e l’iperinflazione fa sì che i beni di prima necessità abbiano prezzi altissimi. Per non parlare della mancanza di carburante, che paralizza gli spostamenti”. Giorgio Squadrani, rappresentante per il Medio Oriente della ong Armadilla (che opera in Siria dal 2005 con progetti a sostegno di minori, persone con disabilità e donne vittime di violenza) vive a Damasco e quando racconta la vita quotidiana nel Paese parla di una “situazione catastrofica”, che è ulteriormente peggiorata con l’arrivo del Covid.
In Siria, infatti, solo il 51 per cento delle strutture sanitarie funziona ancora, e di queste almeno un 33 per cento non può essere considerato pienamente agibile. Non ci sono sufficienti risorse per potenziare le terapie intensive o per le cure mirate, e scarseggiano anche cortisone e antibiotici. “Le autorità siriane stanno facendo di tutto per prevenire i contagi, sensibilizzando le comunità sui comportamenti da tenere – spiega Squadrani –. Ma tutto questo si scontra con le necessità di sopravvivere della popolazione: è difficile dire a qualcuno di non uscire di casa e non andare a lavorare, quando non sa come comprare da mangiare. Conosco taxisti che, nonostante abbiano preso il Covid, continuano a lavorare perché altrimenti la loro famiglia morirebbe di fame”.
L’Organizzazione mondiale della sanità e le diverse organizzazioni non governative presenti sul territorio continuano a distribuire mascherine e gel igienizzante, ma questo non è sufficiente. I dati dei contagi, al 3 maggio, rilevano un totale di 22.977 positivi, di cui 17.300 ricoverati in ospedale, e 1.610 morti. “Stimiamo che i numeri siano almeno dieci volte superiori – racconta Squadrani –. Spesso capita che i familiari di una persona morta di Covid chiedano al medico di non scrivere la reale causa del decesso, per potergli fare la veglia funebre. Purtroppo molti medici acconsentono: tutto questo da un lato provoca un problema dal punto di vista dei contagi, dall’altro fa sì che i dati ufficiali non siano affidabili”.
Ma a Damasco il problema del Covid sembra quasi secondario rispetto ad altre emergenze che la popolazione deve affrontare quotidianamente: l’accesso al cibo è estremamente limitato, sia in qualità sia in quantità. Tanti prodotti non arrivano sul mercato, a causa della devastazione delle aree rurali per la guerra e della difficoltà di importare prodotti. “In Siria, che prima era considerata il granaio del Medio Oriente, ora è difficile trovare la farina – continua Squadrani –. I vegetali freschi sono rarissimi, e i pochi che ci sono hanno una bassissima qualità e vengono venduti a prezzi incredibili: paradossalmente, costa meno comprare un hamburger che dei pomodori. Esiste una tessera per acquistare alcuni beni di prima necessità a prezzi calmierati, ma è del tutto insufficiente. Un esempio: ogni famiglia ha diritto a una bombola del gas ogni 21 giorni, il che naturalmente non è abbastanza. Chi può si rivolge allora al mercato nero, dove però i prezzi sono ben più alti. Si pensi che una bombola del gas sul mercato nero costa 28 mila lire siriane, e il salario medio al mese qui è di 100 mila lire siriane”.
Negli ultimi 12 mesi, l’inflazione in Siria è stata del 200 per cento. Anche rispetto all’accesso alla casa, i prezzi sono lievitati, e anche in zone lontanissime dal centro, dove non c’è elettricità e ci sono difficoltà di accesso all’acqua, l’affitto è molto caro. Prima della guerra Damasco contava 2 milioni e mezzo di abitanti, adesso si stima che siano 10-12 milioni. E poi c’è il problema del carburante, che scarseggia in tutto il paese. Al momento ogni famiglia ha diritto a un massimo di 20 litri di benzina a settimana, non abbastanza in una città enorme come Damasco, dove è necessario usare la macchina per fare qualsiasi cosa, in primis andare al lavoro. “Anche i prezzi dei trasporti collettivi sono schizzati e le persone non sanno come spostarsi – spiega Squadrani –. I nostri operatori e operatrici non hanno risorse sufficienti per pagare i taxi collettivi e non possono venire al lavoro. Lo scorso settembre Armadilla, insieme ad altre ong, si è rivolta alle Nazioni Unite chiedendo di portare riserve di carburante almeno per i veicoli delle organizzazioni internazionali, ma non abbiamo ancora ricevuto risposte”.
In tutto ciò, Stati Uniti e Unione Europea continuano a emettere sanzioni che, più che indebolire il regime siriano di Assad, stanno in realtà inasprendo la vita della popolazione civile. “Dieci anni fa, si è creduto che una rivoluzione proveniente dal popolo potesse essere autogestita, in un’area del pianeta estremamente appetibile dalle grandi potenze – afferma Squadrani –. Ben presto mercenari, e poi gruppi terroristici come Isis, hanno piantato le radici, e lo hanno fatto piuttosto facilmente, sostenuti da interessi economici e politici. Contro tante ipotesi, il governo di Assad ha retto e dal 2015 ha iniziato una riconquista dei territori con il supporto di altri big player come Russia e Iran. Non è andata come tanti analisti si aspettavano: oggi, dieci anni dopo la rivoluzione, Assad è ancora lì, con una struttura politica che non dà alcun segnale di voler cambiare”.
A marzo 2020, con il “Caesar act”, gli Stati Uniti stabiliscono l’ultima tranche di sanzioni contro la Siria, mentre l’Unione Europea mantiene la stessa linea con sanzioni differenti, ma in certi campi comuni. “Anche se in teoria tutte le merci e i beni di aiuto umanitario non sono sottoposti a sanzioni, nella realtà comunque esiste il cosiddetto ‘chilling effect’: è così complesso ottenere i permessi e il rischio di avere problemi è talmente alto che i fornitori non vogliono vendere a una ong che opera in Siria – spiega Squadrani –. E così le sanzioni vanno a incidere anche su beni che non dovrebbero essere sanzionati. Lo stesso vale per i trasferimenti di denaro, anche per azioni umanitarie, che sono sempre più complicati. A volte succede che passino interi mesi senza ricevere fondi, e così rimaniamo per un tempo lungo senza liquidità”.
Quale dovrebbe essere allora la risposta della comunità internazionale? “L’imperativo umanitario dovrebbe tornare al centro, mentre oggi si seguono più che altro interessi economici e politici. Da un punto di vista pratico, l’Europa dovrebbe farsi garante e trovare sistemi per aiutare le Nazioni Unite e le ong ad attivare corridoi umanitari veri e fruibili, sia per l’invio di fondi, sia per l’acquisto di beni di prima necessità. Finché non si farà questo, nessuno potrà davvero operare in Siria in maniera efficace ed efficiente”.
Alice Facchini