Nassiriya, Margherita Coletta: “Sapevo che Giuseppe correva dei rischi ma stava facendo la cosa giusta”
Alla vigilia del sedicesimo anniversario della strage di Nassiriya un attentato in Iraq contro militari italiani. Cinque feriti, di cui tre gravi, il bilancio. Intervista con Margherita Coletta, vedova di Giuseppe, brigadiere dei Carabinieri caduto a Nassiriya, ricordato, insieme ai suoi compagni e a tutti i caduti del terrorismo, dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella
Sono trascorsi 16 anni dal 12 novembre 2003, quando un attentato suicida a Nassiriya causò la morte di 28 persone tra cui 19 italiani (12 militari dell’Arma dei carabinieri, cinque dell’Esercito e due civili), oltre a 9 iracheni.
In un messaggio inviato al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, il Presidente della Repubblica Mattarella ha ricordato “lo slancio e l’altruismo di quanti hanno donato la propria vita per il bene comune, fonte di riflessione per tutti i cittadini, che nel loro agire quotidiano sono chiamati ad un contributo egualmente prezioso per la civile convivenza e il progresso della comunita’ nazionale e internazionale”. Domenica 10 novembre, l’altro ieri, vicino a Kirkuk, in Iraq, cinque militari italiani, tre incursori della Marina e due dell’Esercito, sono rimasti feriti nell’esplosione di un ordigno improvvisato. Tre sono gravi: uno di loro ha subito l’amputazione di una gamba, ma sono sopravvissuti. Abbiamo raggiunto al telefono Margherita Caruso Coletta, vedova del brigadiere dei Carabinieri Giuseppe Coletta, caduto nella strage di Nassiriya, la più grave nella quale siano stati coinvolti nostri soldati dalla seconda guerra mondiale.
Margherita, che cosa ha provato ieri quando ha saputo dell’attentato?
Stavo mandando dei messaggini al cellulare e quando ho letto la notizia ho avvertito una fitta dolorosa, mi sono sentita mancare il respiro. La preghiera che ho fatto è la stessa che avevo fatto a Gesù per l’attentato di Nassirya: anche senza un braccio o una gamba, l’importante è che tornino a casa. Poi, vedendo dalle agenzie che erano feriti ma salvi, ho tratto un sospiro di sollievo, ma il dolore che ho provato è sempre lo stesso.
Che cosa le è rimasto di quel 12 novembre di 16 anni fa?
Quel giorno mi è rimasto dentro, ci accompagna sempre, me e mia figlia, in ogni istante della nostra vita. Ricordo le parole che ci siamo detti al telefono nelle ultime ore prima dell’attentato; mi rimane soprattutto l’orgoglio e la fierezza per quello che Giuseppe insieme ai suoi colleghi faceva, oltre alla consapevolezza che la morte non è una fine ma è sempre un inizio.
Dove ha trovato la forza per andare avanti?
A parte la solidarietà e l’affetto di parenti, amici e di tanti italiani, la grande forza mi è venuta dalla fede in Cristo. Già oggi iniziano ad arrivarmi molti messaggi di vicinanza per domani anche da persone che non conosco e alle quali sono molto grata, ma poi uno rimane solo, in casa, e allora è solo Gesù che può dare forza.
Margherita, si è mai chiesta perché è successo? Voi eravate già stati duramente provati dalla perdita del vostro piccolo Paolo malato di leucemia…
No, non mi è mai venuto in mente di chiedermelo.
Sapevo che Giuseppe correva dei rischi ma stava facendo la cosa giusta, perché portare aiuto a gente che soffre e ha bisogno di noi è l’unica cosa da fare. Non poteva essere altrimenti. In me, come dicevo, la fierezza per quello che lui e i suoi colleghi facevano prevale sul dolore, ma so che la mia forza non viene da me: è Gesù a darmela. Continuo ad essere fiera di tutti i ragazzi che anche oggi scelgono di allontanarsi da casa, spinti del desiderio di spendersi per gli altri. In fondo è l’amore di Dio che fa scattare questa molla. Ma quando questo amore non c’è nel cuore dell’uomo, allora avvengono le cose più disumane. Penso ai tre vigili del fuoco caduti nei giorni scorsi nell’esplosione della cascina di Quargnento… Prima di compiere un’azione tento di chiedermi: Gesù che cosa farebbe al mio posto? Se al centro della nostra vita ci fosse Lui, quante tragedie e sofferenze verrebbero evitate…
E’ riuscita a perdonare?
Non ho mai provato rabbia, né odio, né rancore.
Dopo l’attentato di Nassiriya ce ne sono stati molti altri, compiuti da persone che nella loro mente seguono un’idea distorta di Dio per giustificare le loro azioni efferate. E’ nel cuore dell’uomo che deve cambiare qualcosa. Non ho mai provato odio perché ho pensato che anche gli autori di quell’attacco suicida potessero avere mamme, mogli, figli. Quanto avranno sofferto sapendoli colpevoli di un gesto così crudele?
Quanto li avranno pianti? Questo non toglie nulla all’efferatezza della loro azione che va sempre e fermamente condannata ma, come ci insegna Gesù, bisogna pregare per coloro che ci perseguitano.
Lei ci riesce?
Per grazia di Dio sì. Ma non ho alcun merito. E’ sempre la fede a darmene la forza. Nei miei momenti di sconforto e buio totale penso a Gesù in croce. Se Dio ha permesso che Suo figlio morisse così, chi siamo noi per non seguirlo? Se lo amiamo dobbiamo seguirlo.
Che cosa farà domani?
Domani mattina (oggi, ndr) ci sarà la deposizione di una corona al monumento dedicato ai caduti nel parco Schuster (a Roma, a San Paolo fuori le Mura, ndr), poi una messa nella basilica dell’Ara Coeli. Noi familiari saremo inoltre ricevuti dal comandante generale dell’Arma.
Lei ha fondato un’associazione che porta il nome di suo marito e il suo. Come è nata?
Una sera, pochi giorni dopo l’attentato, c’erano a casa nostra – allora abitavamo a San Vitaliano, alle porte di Napoli – alcuni amici di Giuseppe. Mi dissero: “Dobbiamo fare qualcosa per tenere viva la sua memoria”. Così, per accontentarli, ho accennato all’idea di creare un’associazione. Le cose sono andate in modo molto semplice, questa associazione è un segno dell’amore di Dio, nulla di pretenzioso, un modo per portare aiuti concreti con progetti a breve termine a persone in situazioni difficili: da chi ha bisogno della spesa quotidiana a bimbi che soffrono di malattie oncologiche come il nostro piccolo Paolo. Insomma quello che Dio ci ispira.
Ora avete qualcosa di particolare in mente?
Per Natale i ragazzi pasticcieri del carcere Due Palazzi di Padova prepareranno dei panettoni artigianali per sostenere un nostro progetto in Burkina Faso. Ma mi fa piacere ricordare anche la statuina di San Giuseppe dormiente del 2017, la prima delle quali l’abbiamo regalata al Santo Padre, particolarmente affezionato a questa immagine. Le faccio una confidenza: il Papa mi ha telefonato per ringraziarmi.
Non me l’aspettavo, ero a casa quando ha squillato il cellulare. Sentire la sua voce è stata un’emozione grandissima, ha benedetto tutti i nostri progetti. In questi anni ho ricevuto molti doni che non merito però dico a Gesù: “Me li piglio tutti”.