Libano. Abboud (Caritas): “Crisi economica mai vista prima, ogni due giorni un suicidio”
Nei servizi di Caritas Libano ora arrivano i nuovi poveri, i lavoratori libanesi, che a causa di una inflazione al 138% sono costretti a fare i conti con prezzi dei beni alimentari saliti fino al 500% e la caduta del potere di acquisto dei salari del 90%. Ogni due giorni c’è un caso di suicidio perché la gente non arriva a fine mese, mentre le tensioni tra rifugiati siriani e libanesi sono alle stelle. Parla padre Michel Abboud, presidente di Caritas Libano, tra i relatori al 42° Convegno nazionale delle Caritas diocesane in corso a Rho (Milano).
In Libano la situazione economica, con gli inevitabili riflessi sociali, è più critica che mai. Alle mense e ai servizi sociali e sanitari di Caritas Libano ora arrivano i nuovi poveri, i lavoratori libanesi, che a causa di una inflazione al 138% sono costretti a fare i conti con prezzi dei beni alimentari saliti fino al 500% e la caduta del potere di acquisto dei salari del 90%. Ogni due giorni c’è un caso di suicidio. In più, in un Paese di 4 milioni di abitanti con 1 milione e mezzo di rifugiati in maggioranza siriani, le tensioni tra impoveriti sono alle stelle. “Abbiamo tanti nuovi poveri e nuovi bisogni. Stiamo aiutando il popolo a vivere”, racconta al Sir padre Michel Abboud, presidente di Caritas Libano, tra i relatori al 42° Convegno nazionale delle Caritas diocesane in corso dal 20 al 23 giugno a Rho (Milano).
Tanti nuovi poveri e nuovi bisogni. “Stiamo vivendo una crisi economica mai vista prima – prosegue -. Uno stipendio di 1000 dollari ora vale come 100 dollari. Le persone non possono andare in ospedale perché non hanno i soldi per pagare le cure, allora tutti vengono alla Caritas, anche se i nuovi poveri non sono abituati a chiedere. Prima con la pandemia non potevamo muoverci ma ora che stiamo tornando nelle case vediamo tante persone che si rifiutano di andare in ospedale e chiedono di morire a casa loro.
Non è mai successo di vedere insegnanti che la mattina cercano il cibo nella spazzatura”.
C’è però una parte della società libanese ancora benestante: sono quelli che non hanno voluto ricostruire le case devastate dall’esplosione al porto di Beirut il 4 agosto 2020 e hanno deciso invece di fuggire all’estero.
In un anno 200.000 libanesi hanno lasciato il Paese per cercare lavoro altrove.
I meno abbienti partono anche affidandosi ai trafficanti e percorrendo le rotte mediterranee del mare.
“Il Libano non è un Paese povero, è un Paese rubato – afferma padre Abboud -. Abbiamo davanti un futuro oscuro”. Tre mesi fa la Caritas ha realizzato uno studio da cui è emerso che ogni due giorni si verifica un caso di suicidio: “E’ stata una sorpresa per noi. Perché c’è tanta gente che non riesce ad arrivare a fine mese. Gli adolescenti, che prima ricevevano i soldi dai genitori e ora non più, reagiscono irrazionalmente”.
Dopo l’esplosione al porto di Beirut la Caritas ha anche aiutato le persone che vivevano in case in affitto al porto a ristrutturarle. “Per la prima volta stiamo accogliendo persone e famiglie che chiedono aiuto psicologico – racconta -. Stanno ancora vivendo il trauma di quella tragedia. Molti hanno perso casa, famiglia e salute. I bambini non dormono la notte, hanno incubi. Le persone che all’epoca sono state curate superficialmente ora stanno sperimentando le conseguenze sulla loro salute fisica”.
Tensioni tra rifugiati e libanesi. In una situazione di pesante crisi economica è quasi inevitabile che si scatenino le guerre tra poveri. Una persona su 4 in Libano è un rifugiato (siriano o palestinese) e la Caritas aiuta tutti, libanesi e rifugiati. “Si è creato un grande conflitto sociale – dice padre Abboud -. Quando la gente vede i siriani che vanno in banca a prendere i soldi dei progetti internazionali i libanesi reagiscono male”. Molti libanesi si chiedono: “Perché durante le elezioni i siriani vanno a votare in ambasciata e durante le feste tornano nei villaggi in Siria? Perché non tornano a casa? Noi cerchiamo di spiegare che tutti questi soldi vengono dall’estero, non dal Libano”. Ora, conclude, “stiamo facendo tanti progetti per i nuovi poveri e per lo sviluppo. Ma abbiamo paura che gli aiuti non arrivino a causa del conflitto in Ucraina”.