Bosnia, 30 anni fa la guerra. Mons. Komarica (Banja Luka): “Gli orrori della pulizia etnica, ma il bene cammina con le gambe di chi è rimasto”
Con pensiero alla guerra in Ucraina e alla sfida russa all'Occidente, mons. Komarica rivive gli orrori della pulizia etnica operata dai serbo-bosniaci durante la guerra in Bosnia (1992) che ha visto soffrire i cattolici croati di Banja Luka, oggi capitale della Repubblica Srpska. La scelta di non combattere che ha salvato molte vite. L'impegno per aiutare tutti, ieri come oggi, senza distinzione di etnia e fede
(Banja Luka) “Conosciamo bene la matrice della tragedia in Bosnia-Erzegovina (Bih), 30 anni fa, e in Ucraina, adesso, perché è la stessa: è il tentativo di annientare l’uomo nel nome di un altro uomo, sostituendo Dio con qualcuno che si crede di esserlo. Nei cuori e nelle menti di chi ha potere c’è una pandemia del peccato che è più brutale del Covid perché guidata solo da interessi materiali. Essa va a colpire direttamente l’uomo nella sua essenza, non riconoscendolo come creatura di Dio”. A parlare al Sir è mons. Franjo Komarica, vescovo di Banja Luka, cittadina del nord-est bosniaco e capitale ‘de facto’ della Repubblica Srpska, una delle due entità territoriali nate dopo gli Accordi di Dayton (novembre 1995) che posero fine alla guerra in Bosnia scoppiata nel marzo del 1992, esattamente 30 anni fa. In virtù di questa intesa, il territorio bosniaco fu diviso: il 51% ai croato-musulmani (Federazione della Bosnia–Erzegovina) e il 49% ai serbi (Repubblica Srpska). Da quegli accordi nacque anche il piccolo distretto di Brčko che, poiché conteso dai tre popoli costituenti, serbi, croati e bosgnacchi, è di fatto sotto la supervisione della comunità internazionale. All’epoca la Jugoslavia si era già sgretolata: Slovenia e Croazia, il 25 giugno 1991, avevano proclamato la loro indipendenza e ciò aveva provocato la reazione militare di Belgrado. Ma se con la Slovenia la guerra durò ‘solo’ 10 giorni, non fu così per la Croazia, dove si combatté fino alla primavera del 1992, quando sulla scena irruppe il referendum per l’indipendenza della Bosnia, 1° marzo 1992. Osteggiato dai nazionalisti serbo-bosniaci, contrari alla separazione da Belgrado, ma appoggiato da bosgnacchi e croati, il referendum sancì l’indipendenza della Bosnia-Erzegovina. Fu il punto di non ritorno per una guerra che segnò uno dei capitoli più sanguinosi delle guerre balcaniche.
Pulizia etnica. Mons. Komarica ricorda bene quegli anni, vissuti in prima persona, e li rievoca leggendoli alla luce della guerra in corso in Ucraina anche per un mal celato timore che “la sfida russa all’Occidente” possa, in qualche modo, trasferirsi anche in Bosnia Erzegovina dove i bosgnacchi (musulmani), i croati (cattolici) e i serbi (ortodossi) convivono tra mille difficoltà e ferite di guerra ancora aperte. È ben nota al vescovo, che è anche Presidente della Commissione Iustitia et Pax di Bosnia-Erzegovina, “l’influenza che la Russia di Putin ha nella Repubblica Srspka” il cui leader, Milorad Dodik, membro serbo della presidenza tripartita della BiH, capo del partito indipendentista Snsd (Alleanza dei socialdemocratici indipendenti), ha più volte evocato la secessione sfidando il governo centrale con proposte quali la creazione di un esercito autonomo serbo, magistratura autonoma e istituzione di un’amministrazione locale per gestire le imposte indirette. Un doppio filo lega Dodik a Putin che si sono incontrati anche alla fine di novembre scorso, quando la Russia già si preparava all’invasione dell’Ucraina. E un doppio filo lega Putin alla Serbia, candidata all’Ue, del presidente Aleksandar Vucic, guida di un Paese in bilico tra Mosca e Bruxelles.
“Con gli altri capi religiosi, ortodossi e islamici – ricorda mons. Komarica – provammo a lanciare appelli per evitare che il conflitto in corso in Croazia si allargasse anche in Bosnia e coinvolgesse le nostre comunità e la relativa convivenza. Ciascuno di noi era chiamato a proteggere il proprio vicino, e invitavamo i fedeli a non imbracciare le armi. Il nostro grido era: ‘Non vogliamo la guerra e nemmeno le armi’”.
Fu un grido inascoltato perché la guerra arrivò anche in Bosnia. “Nonostante ciò a Banja Luka non ci siamo armati contro” sottolinea il vescovo che spiega: “Mentre in altre zone della Bosnia centrale e della Erzegovina c’è stata una vera guerra, qui da noi non ci sono stati bombardamenti ed episodi di guerra dentro la città. Rinunciando a combattere abbiamo salvato molte vite e questo ci è stato riconosciuto anche dai generali serbi che pensavano ad una difesa armata da parte della comunità croata. Ricordo che nel cortile di questo episcopio venivano a chiedere aiuto anche musulmani e serbi, non solo cattolici. Abbiamo aiutato tutti senza distinzioni.
Nel momento peggiore abbiamo messo il bene davanti a tutti e a tutto.
Ancora oggi sono tante le persone che ce lo riconoscono. Purtroppo il progetto che stava dietro questo conflitto era stato pianificato molto bene ed era chiaro – afferma mons. Komarica senza troppi giri di parole – sradicare i cattolici (che costituiscono la maggior parte della quota croata, ndr.) da questa area della Bosnia. Lo testimonia il fatto che venivano sistematicamente distrutte le nostre chiese e la nostra gente, specie quella più impegnata a livello ecclesiale, era la prima a subire minacce. Non c’era luogo dove sentirsi a casa”.
Una chiesa martire. “Nella mia diocesi sono stati uccisi quattro parroci, altri quattro sacerdoti sono morti a causa di gravi torture e la stessa sorte è toccata a un religioso e a una religiosa. Durante il conflitto qui sono stati uccisi più di 800 fedeli, civili innocenti. Tutto questo è stato compiuto dalle autorità serbe”. Il principio della pulizia etnica al posto della guerra. L’esito di questa pulizia, dopo 30 anni, si sta rivelando fatale: “Prima della guerra – rivela mons. Komarica – in città vivevano 40mila cattolici, 120mila in tutta la diocesi. Oggi in città ne sono rimasti circa 3mila, 25mila in tutto il territorio diocesano. Molte famiglie sono andate via a causa delle discriminazioni sociali, politiche ed economiche. Poi è stato impedito loro il rientro”. Chiaro il riferimento all’allegato 7 dell’accordo di Dayton che doveva sovrintendere al ritorno di tutti i rifugiati e gli sfollati, ma che non è mai stato attuato. “Manca la volontà politica e sono propenso a credere che il disegno di far sparire la comunità cattolica sia ancora in atto – ammette mons. Komarica -.
I cattolici in questo Paese sono considerati un errore statistico.
Sta accadendo lo stesso anche a Sarajevo. Ma i cattolici – sottolinea il presule – sono un ‘collante’ per serbi e bosgnacchi. Se dovessimo scomparire, islamici e ortodossi si allontanerebbero sempre di più e ciò darà luogo a disordini ancora maggiori”.
Il governo del ‘caos’. Una convinzione che accompagna il vescovo da quando è scoppiata la guerra in Bosnia e che pone una domanda: “Come è possibile che non si riesca far crescere nell’ordine, nella libertà, nella giustizia un Paese piccolo come la Bosnia?” La risposta da 30 anni è la stessa: “Accade perché si premia il crimine e non si tutela la vittima. Dopo gli Accordi di Dayton – afferma mons. Komarica – la Bosnia è lo specchio del successo e del fallimento dell’Europa, del tradimento dei valori e dei principi europei, una vera disgrazia per la politica nazionale. Ci governa un caos sociale e politico controllato dalla Comunità internazionale”. Per questo motivo mons. Komarica non si dice sorpreso da quanto sta accadendo nella Republika Srspka perché, ripete, “è il risultato inevitabile degli Accordi di Dayton. È come se avessero tagliato un albero in due e ora le due metà crescono separatamente. Come vescovi eravamo contrari a quel tipo di accordo perché premiava i criminali e puniva le vittime. Lo abbiamo ripetuto in tutte le sedi, all’Ue, negli Usa, a Bruxelles: Dayton contiene tutti i fondamenti delle guerre del futuro. La Repubblica Srpska oggi è sotto influenza russa, mentre la Federazione della Bosnia – Erzegovina è sotto quella turca”. Questo a dispetto della volontà di serbi, croati e bosgnacchi, che per il presule, “vogliono vivere insieme e insieme guardano all’Europa. Per capirlo basterebbe vedere quante persone che lasciano il paese vanno a stare in Russia o Turchia, pochissimi. Tutti emigrano in Europa che sentono più vicina. L’Europa deve tutelarci, non apparteniamo né alla Russia né alla Turchia. Noi non siamo la periferia dell’Europa, ma il Giardino. Non ha senso stare fuori dall’Ue. Vogliamo entrare in Europa”.