Bosnia, 30 anni fa la guerra: guarire la memoria con l’arte. Dumonjic (Sarajevo): “Il dolore è di tutti, serbi, croati e bosgnacchi”
Trenta anni dopo lo scoppio della guerra, nella Bosnia di oggi l’espressione artistica è diventata anche un mezzo per guarire la memoria del conflitto e una forma di resistenza alla guerra. Questo grazie all'impegno di giovani artisti bosniaci e di una storica dell'arte italiana, Claudia Zini, trapiantata a Sarajevo, fondatrice del Kuma International, un centro internazionale di ricerca sulle arti visive legate alla guerra e alla violenza, alle memorie di guerra
(Sarajevo) Uno spazio espositivo, un luogo di incontro per giovani artisti, dove discutere di progetti, di idee, dove rivendicare un ruolo attivo nella costruzione della società bosniaca. Ma anche uno spazio di protesta artistica contro la guerra scoppiata in Bosnia nel marzo del 1992, trenta anni fa, le cui ferite sono ancora evidenti all’interno della società bosniaca e della sua vita politica, economica e culturale. È la galleria “Brodac” di Sarajevo, fondata nel 2016 dal giovane artista Mak Hubjer, già studente all’Accademia delle Belle arti della capitale bosniaca. Al suo interno, in queste settimane, è ospitata la mostra “Rememory”, un progetto realizzato da Kuma International, un centro internazionale di ricerca sulle arti visive legate alla violenza, alle memorie di guerra, ai traumi e all’identità delle società post-conflitto, con particolare riferimento alla Bosnia-Erzegovina e all’ex Jugoslavia. Il centro è stato fondato nel 2018 a Sarajevo, dove risiede da anni, da Claudia Zini, storica dell’arte, di origini trentine, con la Bosnia nel destino. Prima la tesi di laurea sull’arte contemporanea bosniaca, guardando all’impatto che il conflitto degli anni ’90 ha avuto sulla produzione artistica di questo Paese, e poi curatrice del Padiglione della Bosnia Erzegovina nel 2019 per la Biennale di Venezia. In mezzo il dottorato a Londra e svariate esperienze di lavoro in gallerie e fondazioni. L’appuntamento è alla galleria “Brodac”, ricavata, ci dice, dai locali di una ex prigione della Seconda Guerra mondiale, gestita dai tedeschi e dai loro collaboratori locali, “un luogo rigenerato dall’arte”, a pochi passi dalla Viječnica, la biblioteca di Sarajevo, tornata all’antico splendore dopo la sua distruzione perpetrata, nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 a colpi di granate incendiarie, dall’esercito serbo-bosniaco. L’assedio era cominciato ‘solo’ il 5 aprile, poco più di 4 mesi prima.
Guarire e resistere. “Il ruolo dell’arte a Sarajevo è stato molto importante perché ha permesso alle persone di rimanere in vita – esordisce Zini – nei 1425 giorni di assedio la gente non aveva elettricità, acqua, cibo, medicine, ma nonostante ciò sono stati organizzati 3mila eventi artistici e esposizioni. Il racconto di quei giorni drammatici è stato affidato proprio all’arte, ai mezzi visivi come film e fotografie.
L’arte ha permesso di lasciare delle testimonianze importanti, traumatiche ma anche di speranza, in un Paese dove, ancora oggi, ci sono almeno tre narrative differenti del conflitto, una per ogni etnia. La manipolazione politica rende difficile arrivare alla verità.
Tuttavia gli artisti vogliono raccontare la loro verità, perché la memoria non venga cancellata e perché ciò che è accaduto al popolo bosniaco non sia dimenticato. Con l’arte hanno detto ‘no’ alla guerra”. Trenta anni dopo lo scoppio della guerra, nella Bosnia di oggi l’espressione artistica è diventata anche un mezzo per guarire la memoria del conflitto e una forma di resistenza: “L’arte, per sua natura, consente di condividere emozioni e di comunicare storie che a parole sono difficili da raccontare”. “Non tutta l’arte contemporanea bosniaca è legata al tema della guerra – dice la giovane storica dell’arte – ma noi abbiamo deciso di farlo per le esperienze dirette vissute. Da sei anni vivo a Sarajevo e, incontrando molti bosniaci anche della diaspora, ho notato che nonostante siano passati 30 anni dallo scoppio della guerra, tante ferite sono aperte, mai rimarginate. Ne ho avuto un’ulteriore conferma proprio in queste settimane, con la guerra in Ucraina: tante persone sono incollate alla tv per seguire quelle immagini drammatiche che li riportano indietro nel tempo. Dopo 30 anni c’è bisogno di parlare di guerra e di rielaborare quanto accaduto per evitare che succeda di nuovo”.
Kuma international. “Con Kuma international – spiega Zini – ci occupiamo proprio di questo: attraverso atelier e laboratori di studio e formazione insegniamo a studenti bosniaci e non, il ruolo che le arti visive e l’architettura possono giocare in una società che ha visto la guerra, come la Bosnia o anche la Palestina. Insegniamo ai nostri studenti come l’arte può raccontare un passato doloroso, come aiuta le persone ad affrontare i traumi vissuti e come può diventare uno strumento di pace e di risanamento delle ferite”.
“Usciamo da anni molto duri e l’arte può guarire i ricordi e aiutare a rielaborarli”.
Frutto di questo percorso sono oltre 60 mostre già organizzate dal Centro con opere di artisti, giovani e meno giovani anche noti, che riflettono sulla memoria di questi 30 anni. Le tecniche sono diverse e vanno dalla pittura alle foto, passando per video e istallazioni. Una in particolare cattura l’attenzione: una colomba bianca, simbolo della pace, priva di testa. Si tratta di un’opera di una giovane artista bosniaca, Irma Bajramovic, figlia di rifugiati rientrati dal Canada. “Un messaggio semplice, diretto e chiaro per dire ‘no’ alla guerra’”. I laboratori di Kuma International hanno visto in passato anche artisti ucraini: “alcuni di loro – dice la storica dell’arte – vivono nelle città assediate e stanno resistendo con le armi della loro arte”.
Sofferenza condivisa. Anela Dumonjic, 24 anni, di Sarajevo, studia in Germania in attesa di tornare nella sua città natale. Una sua opera è esposta nella Galleria Brodac, è l’immagine stilizzata della Bosnia priva di confini. Si dichiara “una bosniaca di seconda generazione, quella che non ha vissuto la guerra. Tutto quel che so del conflitto scoppiato 30 anni fa l’ho letto e studiato e ne ho parlato con i sopravvissuti. Sono nata dopo la guerra e forse per questo ho avuto sempre la sensazione di non avere il diritto di occuparmi del conflitto. Come se non fosse il mio dolore. Ma invece lo è perché
il dolore di una nazione non appartiene solo a chi ha vissuto la guerra.
Le tracce del conflitto si vedono sui volti delle persone, sulle facciate dei palazzi e in tutta la nostra società. Io racconto il mio dolore nelle mie opere. Questa galleria d’arte, i laboratori che ho seguito mi hanno dato la possibilità di farlo”. Anche per questo Anela immagina il suo Paese “senza i confini di oggi. Questi – rimarca – sono stati disegnati a tavolino a Dayton. Sono frontiere artificiali perché il dolore non è di una sola etnia. Ci sono serbi, bosgnacchi e croati che hanno sofferto, il dolore è universale e non è riservato solo ad una parte. Il nostro è un dolore che condividiamo con tutti i Paesi che vivono la guerra, Ucraina, Siria, Palestina, Yemen…”