Andrés Manuel Lòpez Obrador presidente. Il Messico sceglie la rivoluzione
In Messico il responso delle urne dell’1 luglio ha decretato vincitore Andrès Manuel Lòpez Obrador, che sa parlare un linguaggio diretto e che ha messo il dito nelle piaghe del Paese.
Domenica 1 luglio i messicani hanno affidato le redini del paese ad Andrès Manuel Lòpez Obrador, detto Amlo. 64 anni, sindaco della capitale nei primi anni 2000, Obrador ha confermato le previsioni che lo vedevano in netto vantaggio sui rivali.
Già dalle prime ore degli spogli le preferenze per lui e il suo Movimiento per la regeneraciòn naciònal (Morena, coadiuvato da altri due partiti di sinistra) si attestavano intorno al 53 per cento. Mentre, ad almeno trenta punti percentuali di distanza, si collocavano i diretti rivali: José Antonio Meade del Partido revolucionario institucional (Pri, di ispirazione socialista ma di fatto centrista), al potere fino a una settimana prima, era fermo al 17 per cento; Ricardo Anaya Cortès, che metteva assieme il conservatore Partido de acciòn nacional (Pan) e il progressista Partido de la revoluciòn democratica (Prd), stazionava al 22. Sotto le due cifre si collocavano, infine, i due indipendenti Jaimè Rodriguez Calderòn e Margarita Zavala Gòmez, che hanno raccolto rispettivamente il 5,2 per cento dei voti e lo 0,1.
Per tutti gli analisti si tratta di un cambiamento senza precedenti nella politica e nel sistema istituzionale messicani. Mai una formazione costituita nei mesi appena precedenti si era imposta in maniera tanto netta, soprattutto se si considera che il paese ha visto fino al 1988 l’egemonia del Pri e da allora il suo alternarsi con il Pan e il Prd.
Le ragioni del successo vanno ricercate nella capacità di Obrador di parlare con un linguaggio accessibile alla gente. Ma soprattutto nell’aver saputo mettere in maniera più convincente degli sfidanti il dito nelle piaghe del Paese: la corruzione diffusa a tutti i livelli, la violenza generale, la povertà sotto la cui soglia sono precipitati tanti concittadini (almeno 53 milioni). Per tutti era effettivamente il “nuovo che avanza”, al netto di un Pri a cui apparteneva il presidente uscente Enrique Peña Nieto (e di cui aveva fatto parte lo stesso Obrador, salvo poi uscirne per posizioni nettamente critiche) nell’occhio del ciclone per scandali di vario genere.
Adesso che la campagna elettorale è terminata e le urne hanno emesso il verdetto, il vincitore è atteso alla prova dei fatti. Sono state tante le promesse da lui fatte, che hanno fatto breccia soprattutto nel sud del Paese tra le masse indigene e contadine: nuove infrastrutture come l’alta velocità nella penisola dello Yucatàn, maggiori servizi, l’aumento delle pensioni, più sicurezza sociale. Gli osservatori si chiedono come riuscirà a realizzarle e con che risorse finanziarie. Del resto i suoi detrattori lo hanno accusato più volte di essere un populista alla stregua dell’ex presidente venezuelano Hugo Chavez. Accuse che Obrador ha puntualmente rispedito al mittente, assicurando di volersi muovere nel pieno rispetto delle istituzioni. E di voler concretizzare, al contrario, una vera partecipazione popolare alla politica locale e nazionale, fin qui ingessate dalle mazzette. Per questi suoi obiettivi si è già assicurato l’appoggio di alcuni ricchi gruppi imprenditoriali del Nord del paese, al di là del dichiarato orientamento di sinistra.
Restano, inoltre, da capire le sue mosse in politica estera. Il Messico è pur sempre il più popoloso stato di lingua spagnola, con i suoi 125 milioni di abitanti, e la seconda economia dell’America Latina dopo il Brasile. A questo va aggiunto il fatto di confinare con la prima potenza economica mondiale, gli Stati Uniti. Con cui sono in vigore trattati commerciali di primaria importanza, come il Nafta (North America free trade agreement), che lo stesso Obrador aveva annunciato di voler rivedere. E i cui rapporti reciproci sono molto influenzati dal flusso di migranti lungo la sterminata frontiera tra i due paesi, con parole come “muro” a scandirne il dibattito. Il presidente statunitense Donald Trump è stato molto caloroso con il collega messicano, una volta finita la tornata elettorale; chissà se manterrà lo stesso atteggiamento al tavolo dei negoziati.