Afghanistan: la storia di Gholam Najafi, “era come se Dio piangesse…”
Gholam Najafi è un giovane scrittore afghano, fuggito nel 2000 dal suo Paese a soli 10 anni, dopo l'uccisione del papà da parte dei talebani. Gholam è arrivato in Italia nel 2006, vive a Venezia dove si è costruito una nuova vita grazie allo studio e al suo amore per la letteratura. Al Sir ha ripercorso la sua storia di sofferenza, di sogni e di ricordi 'fissati' nei suoi libri.
“Prima di scendere a terra mi sono agghindato con cura. Ho indossato gli unici vestiti puliti che avevo portato con me sotto il camion, custoditi in un sacchetto di nailon. Non volevo che la gente potesse pensare che ero un immigrato. A quel punto ho messo piede in Italia”:
così scrive Gholam Najafi, giovane scrittore afgano, nel suo primo libro, intitolato “Il mio Afghanistan”, e sono le stesse parole con cui racconta al Sir la sua storia che lo ha portato dal piccolo villaggio di Khoshal Shirdagh, nella regione di Ghazni, in Afghanistan – dove viveva facendo il pastore e il contadino – fino in Italia. Un viaggio lungo sei anni, passando per Pakistan, Iran, Turchia e Grecia, cominciato all’età di 10 insieme al fratellino più piccolo, dopo la morte del padre ucciso dai talebani. Incontriamo Najafi nell’abbazia benedettina di Santa Scolastica, a Subiaco, dove nei giorni scorsi ha presentato il suo ultimo libro “Tra due famiglie” (ed. La Meridiana) in cui collega il suo passato al suo presente, l’Afghanistan, terra natale, all’Italia, paese adottivo.
Il viaggio. “Quando ho lasciato il villaggio avevo preso solo del pane, per non morire di fame, una giacca, dei calzini, e poco altro. Sono partito per sfuggire alla guerra, non avevo in mente niente altro che questo. Non pensavo nemmeno a chi era rimasto a casa, mio papà era stato ucciso dai talebani. In quei momenti diventiamo egoisti perché cerchiamo di salvare noi stessi” dice Najafi. La speranza era di “tornare un giorno a riprendere la mia vita di pastore e contadino, tra le greggi, le capre, le galline, la terra. A distanza di anni ancora oggi mi trovo a pensare che fine abbiano fatto i miei animali, la mia casa, il mio asino, la mucca. Non l’ho mai saputo. Come ogni bambino pensavo che la guerra fosse come la pioggia di primavera, quella che dopo un po’ smette e poi torna il sole. La guerra invece non si è mai fermata e continua ancora oggi dopo decenni”. I ricordi si rincorrono uno dietro l’altro ma oggi sono tutti fissati nelle pagine dei suoi libri, “Il mio Afghanistan”, “Il tappeto afghano” e, l’ultimo – per adesso – “Tra due famiglie” (Ed. La Meridiana).
“Come se Dio piangesse per me”. Più i ricordi vanno avanti più emerge il legame dell’autore con la scrittura, lui che era partito dall’Afghanistan “analfabeta. Sapevo a malapena che avevo 16 anni, non conoscevo la mia data di nascita, non avendo mai avuto dei documenti in Afghanistan. Il pomeriggio che sono arrivato a Marghera, nascosto sotto le assi di un Tir, pioveva tantissimo ed era come se Dio piangesse per me, quasi temesse il mio respingimento da parte della Polizia di frontiera”. Da questo momento in poi un susseguirsi di eventi: “il porto come dormitorio, l’incontro con due signore che mi fecero mangiare, l’arrivo in Questura e l’ingresso in una comunità di accoglienza per minori non accompagnati dove ho avuto modo di studiare un po’ di italiano”. La sensazione di vivere “in una terra di mezzo, lontano dal mio passato e di fronte a un presente che sapeva ancora di sofferenza”. Fino all’accoglienza in una famiglia, luogo ideale dove poter tornare “a dire mamma, papà, fratello, sorella, dove provare a comunicare e ancor più a dialogare”.
La scuola. Grazie anche alla scuola: “Avevo 21 anni – dice con un sorriso – quando ho conseguito il diploma di scuola media di 150 ore. Per molti ero un talebano, un marchio che mi distingueva dagli altri, un immigrato. Quel ‘pezzo di carta’ mi ha permesso di proseguire gli studi e iscrivermi alle Superiori, in uno istituto alberghiero. Studiavo letteratura italiana, un’ora a settimana, per me una materia ostica. Leggevamo la Divina Commedia ma io non capivo. Odiavo la letteratura che però cominciò ad entrarmi dentro quando, al quarto anno, conobbi un’insegnante che la spiegava con semplicità e profondità. Studiavamo Pascoli, Leopardi, Pirandello, Primo Levi, Omero, Virgilio, e più leggevo più avevo voglia di raccontare, di scrivere. Le dicevo: ‘Prof, anche io ho tante cose da dire, ho tutto dentro di me che arriva come un fiume che però non trova sbocchi’. Cominciai così a scrivere in italiano. Era il 2011. Sentivo il bisogno di raccontare il dolore visto e patito nei miei anni di viaggio. In Iran sono stato in carcere e ho visto come l’umanità viene violentata continuamente. I carcerieri ci gettavano dentro rovi di spine, ci bastonavano e ci minacciavano perché non dovevamo più entrare in Iran. Ho visto miei compagni morire sotto i camion, affogati in mare, o riportati in Afghanistan, resi schiavi senza diritti, sfruttati e abusati”.
“Raccontare questa sofferenza per me è come riscattare le loro vite perdute”.
Recuperare l’infanzia. Grazie alla scrittura Najafi recupera anche la sua infanzia occupata quasi del tutto da “quel viaggio clandestino fino a Venezia. Pensavo – spiega – che quello fosse l’unico modo di viaggiare. Non avevo mai visto un aereo, un treno, un bus, una nave, prima di quel momento. Venivo da una terra vergine, mai toccata da nessuno. Vedevo aerei sorvolare il mio villaggio ma io credevo che fossero enormi gabbiani, mai avrei pensato che al loro interno ci fossero delle persone. Non conoscevo l’orologio: lo scorrere del tempo lo calcolavo in base alla lunghezza della mia ombra sul terreno. Non avevo mai visto il mare fino al mio arrivo in Turchia”.
Il ritorno in Afghanistan e il sogno. Tredici anni dopo la sua fuga, Najafi è tornato in Afghanistan. “Stavolta in aereo, non da clandestino. Quando sono decollato da Venezia piangevo. È stato un ritorno alle mie radici. Con me il sogno di costruire una scuola per i bambini per abbattere muri e instaurare relazioni. Studiare significa conoscere e conoscersi. Io in Afghanistan appartengo a una minoranza sciita che non parla pashtun, e quindi non potevo fare amicizia con chi era diverso da me. Non potevo nemmeno entrare in una mosche sunnita. Vorrei costruire una scuola – vicino Herat – dove insegnare ai sunniti la lingua persiana e agli sciiti la lingua pashtun. Ho già acquistato un terreno.
L’intreccio di lingue e di culture ci salverà.
A Herat, prima dei talebani, c’era una università frequentata da tanti studenti. Tanti, nonostante la guerra, mutilazioni, ferite, sono diventati maestri, poeti, scrittori, artisti. Oggi con i talebani seminare arte, cultura umanistica, bellezza, creatività è impossibile”.
I talebani e l’illusione della democrazia. La presa del potere dei talebani, nell’estate 2021, spinge lo scrittore a guardare al suo Paese “con tristezza. Vedere le immagini di tanti afghani in fuga, ammassati davanti l’aeroporto di Kabul sperando di prendere un volo, mi ha addolorato, c’è chi ha venduto casa, terra, animali per pagarsi il viaggio verso l’Occidente. Gli afgani sono stati illusi: per 20 anni abbiamo studiato la democrazia e quando abbiamo capito ci hanno abbandonato lasciandoci di nuovo nelle mani dei talebani”. Le colpe della Comunità internazionale, per Najafi, “sono state quelle di non aver saputo costruire i presupposti culturali su cui innestare il concetto di democrazia che non può essere tarato sul modello occidentale ma sul nostro.
La democrazia non si realizza da un giorno all’altro, togliendo il velo e mettendo il pantaloncino corto.
Bisogna cambiare la mentalità e soprattutto educare e istruire le persone. Nel mio Paese non c’è obbligo scolastico, studia solo chi può, gli altri devono sperare di avere una scuola nei pressi del villaggio dove vivono. Con i talebani le ragazze non possono andare a scuola. Le famiglie sono numerose e i bambini vengono mandati subito a lavorare per provvedere al necessario. Oltre a questo, in 20 anni abbiamo visto arrivare montagne di denaro che la politica corrotta ha disperso e nascosto nelle tasche di pochi”.
L’Ucraina. La preoccupazione di Najafi, adesso, è anche per l’Ucraina dove, spiega, “stanno smerciando armi come avvenne qui in Afghanistan nella guerra sovietico-afghana (1979-1989) quando un gran numero di nazioni estere forniva armamenti ai mujaheddin che combattevano contro i russi alleati della Repubblica Democratica dell’Afghanistan. Quando i russi si ritirarono, in Afghanistan nacquero una miriade di fazioni armate rendendo il Paese ostaggio di divisioni etniche e religiose”.
Due Gholam. Il viaggio di Najafi continua a Venezia, si è laureato in soli due anni in Lingua, cultura e società dell’Asia e dell’Africa mediterranea e si è specializzato in Lingua, economie e istituzioni dell’Asia e dell’Africa mediterranea all’Università Ca’ Foscari. Collabora con il progetto “Hera” nel contesto della migrazione, presso l’Università di Padova.
“Il viaggio mi ha insegnato che la Patria è la casa, la famiglia. La Patria non può essere ostaggio del nazionalismo. Io tengo moltissimo al mio villaggio di origine perché lì riposano i miei antenati, lì sono le mie radici, la mia fede”.
“Da questi legami ho tratto nutrimento. Il cuore non può dimenticare le sue radici. Oggi, dopo anni, è come se ci fossero due Gholam: uno rimasto in Afghanistan che continua a cercare e che detta la sua storia all’altro Gholam, in Italia, che la fissa sul foglio…”