8 marzo: la coperta di Linda e Tamara e delle ragazze irachene di Rafedìn
Nell'atelier di “Rafedin - Made by Iraqi Girls”, ad Amman in Giordania, 23 ragazze cristiane irachene, costrette a fuggire dallo Stato Islamico e dalla violenza scoppiata nel loro Paese, provano a intessere i fili spezzati delle loro vite per ricostruirne la trama. Sognando una vita sicura e dignitosa, realizzano manufatti che sono tutti pezzi unici. Ma la cosa più bella che hanno realizzato è una coperta in patchwork, fatta di tante pezze e ritagli diversi di stoffa messi insieme, un vero mosaico di colori e geometrie. "È ciò che ci rappresenta meglio - dicono - perché quando siamo unite vinciamo"
Perseguitate e messe in fuga dallo Stato Islamico, minacciate da criminali privi di scrupoli e costrette a ricominciare tutto da capo, lontano da casa, coltivando, con coraggio e determinazione il sogno di una vita dignitosa e sicura. Fili di storie spezzate riannodati insieme per formare la trama e l’ordito di una nuova vita. Sono le ragazze cristiane di “Rafedin – Made by Iraqi Girls”, un progetto di moda e sartoria artigianale nato ad Amman, in Giordania, nel marzo 2016, da un’idea di don Mario Cornioli – “abuna Mario” come usano chiamarlo da queste parti – sacerdote del Patriarcato latino di Gerusalemme, sostenuta all’inizio dai fondi dell’8×1000 della Cei, di Ats Terrasanta, e adesso dalla Ambasciata francese, in parte dall’Unicef attraverso l’associazione “Habibi Valtiberina” (Hava) riconosciuta come Ong locale dal Ministero giordano dello Sviluppo Sociale. “Il progetto – spiega al Sir la sua coordinatrice, Annamaria Minardi, coadiuvata nel lavoro da uno staff di 5 persone sia irachene che giordane – nasce con l’intento di aiutare donne irachene scappate dall’Isis e rifugiate in Amman.
L’obiettivo è dare loro una formazione professionale grazie all’aiuto di due sarte italiane, Rosaria Diflumeri e Carla Ladogana, entrambi di Cerignola e della fashion designer Antonella Laura Mazzoni, che hanno insegnato alle ragazze come ideare i primi modelli fino a creare indumenti di alta qualità”. Si sviluppa così la griffe, “Rafedin”, ovvero “i due fiumi”, termine usato comunemente per indicare il Tigri e l’Eufrate, i due corsi d’acqua dell’Iraq. Oggi sui capi della sartoria campeggia in bella mostra la griffe “Made by Iraqi girls” dove risaltano i colori dell’Iraq. Le creazioni Rafedin sono un ponte tra oriente e occidente, tagli e modelli italiani su stoffe e colori tipicamente orientali.
Partito con 11 ragazze, oggi nell’atelier Rafedìn studiano e lavorano 23 giovani irachene. In questi anni molte sono riuscite a partire per il Canada, gli Usa e l’Australia, altre sono arrivate. Adesso tocca a Raeda, Maryam R, Virgin, Sandy, Ferial, Yasmin, Diana, Najla, Amen, Rozeta, May, Lina, Iman, Rita, May, Andrina, Hala, Muna, Maryam H, Amanda, Marina e poi Linda e Tamara. “Gli arrivi sono continui – afferma Minardi – soprattutto dallo scorso ottobre, quando in Iraq sono scoppiate le manifestazioni e le proteste contro il Governo e la corruzione.
Le ragazze non arrivano più solo dalla Piana di Ninive e da Mosul, dopo l’invasione dell’Isis nel 2014, ma da molte altre città irachene, Baghdad in testa. Grazie anche alla Cei, nel 2018, abbiamo ampliato i locali del nostro atelier, ci siamo dotati di moderne macchine per cucire, ferri da stiro professionali e nuovi tavoli da lavoro. Abbiamo potuto così raddoppiare il numero delle ragazze i cui manufatti, tutti pezzi unici, stanno avendo un notevole successo di vendita. Ci sono tre ragazzi iracheni della nostra ong che si occupano di comunicazione e marketing via social”.
Minacciata di morte. Il giusto premio alla caparbietà e alla resilienza di queste giovani. Tamara e Linda sono due di loro:
“non ci arrendiamo. ‘Resa’ è una parola che non conosciamo”
dichiarano senza tentennamenti, interpretando il sentimento delle loro compagne nell’atelier. Tamara, cristiana di 27 anni, viene da Baghdad. Biologa, con un impiego in un laboratorio di analisi ospedaliero della capitale irachena, è fuggita in Giordania dopo che dei criminali hanno minacciato di morte lei e la sua famiglia. “In Iraq non c’è futuro a causa dell’instabilità, insicurezza e della corruzione – dice con amarezza -. Quando sono arrivata ad Amman, il 12 luglio del 2018, ero distrutta psicologicamente così ho dovuto ricorrere all’aiuto di uno psicologo. Ora sto tornando a vivere e sperare”. E a sognare. “Il mio sogno?”, la risposta non si fa attendere: “Partire per costruirmi una nuova vita.
Il mio cuore è in Iraq, ma tornarci non è possibile. Sono triste per la sofferenza del mio popolo. Il mio cuore batte per l’Iraq e nelle mie vene scorre sangue iracheno. Ma ora la mia vita è tornata ad essere nelle mie mani. E con l’aiuto di Dio riuscirò ad andare avanti.
Sto imparando un nuovo mestiere e per me è un tuffo nel passato perché mi fa pensare a quando da bambina disegnavo vestiti e li ritagliavo per gioco. Ora questo gioco è diventato una realtà che mi sta dando da vivere”.
In fuga dall’Isis. Linda, è di Qaraqosh, villaggio cristiano della Piana di Ninive invaso e devastato dall’Isis nell’agosto del 2014. Ventinove anni, sposata e madre di un bambino, con un secondo in arrivo, è arrivata ad Amman 4 anni fa. Ma il ricordo della fuga dal villaggio è ancora vivo: “Siamo fuggiti da Qaraqosh il 6 agosto del 2014. Solo il giorno prima avevamo celebrato il nostro matrimonio. Con le poche cose che siamo riusciti a prendere con noi ci siamo rifugiati a Erbil, in Kurdistan, dove siamo rimasti fino al 2016”. Oggi può dire con un sorriso: “Abbiamo fatto il nostro viaggio di nozze da sfollati, nelle tende”. Ma qualcosa sta cambiando, la vita che porta in grembo è un segnale eloquente. “È una bambina, e per lei cucirò tanti vestiti, come per tutta la mia famiglia. Il mio sogno più grande è partire per l’Australia dove vivono i miei genitori così da dare ai miei figli tutto ciò di cui hanno bisogno, la sicurezza e l’istruzione. Mandarli a scuola, innanzitutto, perché è sui banchi che si costruisce il futuro.
So che ce la farò. Non ho mai pensato di arrendermi.
La fede mi ha aiutato a fronteggiare lo Stato Islamico e la sua violenza. Oggi la vita comincia a sorridermi di nuovo”.
La coperta in patchwork. Tamara e Linda intanto tagliano e cuciono nel laboratorio di Rafedìn. Dalle loro mani e da quelle delle loro compagne escono abiti, giacche, foulard, cravatte, bluse, gonne, sciarpe e accessori, tutti in bella mostra nella pagina facebook, “Rafedìn – Made by Iraqi Girls” e “Instagram rafedin_iraqigirls”. Chiedo: “qual è il pezzo più bello che avete cucito?”.
“Una coperta in patchwork, fatta di tante pezze e di ritagli diversi di stoffa, un vero mosaico di colori e geometrie”. “Una coperta che è l’immagine più vera e più bella di Rafedin – interviene abuna Mario – essa infatti è composta di scarti, come queste ragazze che ‘quasi’ scartate nel loro Paese, una volta messe insieme diventano una forza bellissima come bellissimi sono i prodotti che realizzano e che dalle loro mani prendono forma e stili”. Lo stile di Rafedìn: “coperte fatte di pezzi grandi e piccoli, tutti colorati, che testimoniano che quando siamo unite vinciamo!”. Parola delle ragazze di Rafedìn.