L’arco si tuffa nella tenebra. Sentiamo il disegno di Dio, l’eco non del Big Bang ma dell’“unica cosa che conta”
Dio ha tracciato un arco di luce – quasi il piegarsi di una mamma sul suo bambino – perché dentro la creazione palpitasse la carità
Che cos’è il mondo? Che cos’è quella realtà uscita dalle mani di Dio? Tutta la storia della salvezza è ricerca di una risposta, perché ciò che l’umanità sperimenta da quando Adamo ed Eva uscirono dal giardino di Eden sono cardi, spine, rovi inestricabili. Questa creazione cerca di respirare e vivere, di resistere, di darsi un senso, e più lo fa con le sue forze più s’ingarbuglia e i rovi diventano una massa oscura, tenebrosa, al punto che le acque che sono sopra i cieli e quelle sotto i cieli, che Dio aveva distinto, si uniscono in un diluvio informe di distruzione. La creazione comincia a pensarsi autonoma, brava, forte, capace di fruttificare, esuberante, godibile, succosa, e non appena il morso di Adamo ne addenta l’illusoria prelibatezza, il veleno della superbia tutto annerisce di morte. Adamo, dove sei? Popolo di Dio, dove sei? Dove siete, Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo? È così la storia di questa gloriosa, commovente salvezza. Dio ha dovuto in modo misterioso scendere dentro il deserto che è la creazione, la superba creazione. Dio, nella propria smarginata misericordia, poiché Adamo non poteva più rispondergli – poiché era soffocato dal coltello di Caino, dalle lingue confuse, dalle acque del diluvio, era arso e infuocato nelle sabbie del deserto del Sinai, era rincorso dal faraone, dai carri e dai cavalli, era morso dai serpenti, aveva fame, aveva sete a Massa e Meriba, era impaziente, era peccaminoso come Davide, come Salomone, come i re di Israele, era in catene a Babilonia, era asservito al fariseismo più cieco e bieco, era adulatore di Roma, Adamo – Dio è entrato lì, tra i rovi. Il deserto, i serpenti, Babilonia, l’assassinio di Abele, il diluvio sono una cosa sola: la morte. Dio è entrato lì e subito il serpente, lo spirito impuro, lo azzanna tentandolo di credersi uno di noi, ucciso. I morsi di Satana nel deserto non sono diversi dai chiodi della croce. Sono i denti del peccato, del veleno, della morte. Ma Dio aveva tracciato un arco di luce dove la meraviglia dei sette colori dell’iride risplende, perché tra la morte, le acque e le nubi del cielo restasse l’amore. È lo stesso arco che la colomba ha disegnato entrando nel grembo di Maria e facendo sì che il Verbo divenisse la nostra carne. Lo stesso arco che ha aperto in due le acque del Mar Rosso, che ha suscitato una fonte a Massa e Meriba, che ha fatto cadere la manna e le quaglie, che ha aperto le acque del Giordano, che ha convertito Davide, Salomone e ha spezzato le catene di Babilonia. Quell’arco – quella discesa misericordiosa, quella (direbbero i Padri greci) synkatabasis, quasi il piegarsi di una mamma che si china sul suo bambino – il Signore lo ha mandato dentro la nostra morte. Ci ha presi tutti per mano («voi siete miei amici») e si è tuffato tenendoci per mano dentro la vasca battesimale, il sepolcro. E noi, angosciati, gridiamo come Pietro: Maestro, salvami!, perché il mare, i denti di Satana, i chiodi, il diluvio, la confusione delle lingue, i serpenti del deserto, come fanno male! «Ogni giorno siamo messi a morte». «Se qualcuno vuole venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua». È un’armonia perfetta. Tuffati dentro il Mar Rosso, dentro il deserto, la morte, dentro la tomba che è il nostro battesimo, andiamo a fondo, scendiamo, scendiamo e ci guardiamo intorno ed è tutto notte, tenebra. È tutto male. Ma a un certo punto il peso batte sul fondo. Gesù di Nazareth, come un danzatore, con l’eleganza che è di Dio, è uscito da quel buco mortale, da quella tenebra, con noi. Questo ci è dato solo sacramentalmente, attraverso i santi segni, in spe, ci è permesso appena sperarlo oltre questa creazione ferita, ma il Vangelo è tutto qui. Il profumo della Pasqua è tutto qui. La pace è questo. La vita è questo. L’arco che si tuffa nella tenebra è la manna materna di Dio, che ci ama più di ogni stanchezza, abbandono, peccato. Per noi non è più che speranza teologale infusa, eppure dentro la creazione già riconosciamo che palpita la carità. Appena c’è un po’ di amore, anche il poco che riesce a noi, tutto cambia. Sentiamo il disegno di Dio, l’eco non del Big Bang ma dell’“unica cosa che conta”, che è vera, che ci toglie quell’angoscia tremenda che è la creazione ferita. Il suo amore, che ci è dato, che è per noi, che ogni volta che ci sfiora disegna il nostro sorriso.
don Gianandrea Di Donna
Direttore Ufficio Diocesano per la Liturgia