L’amore che sana le ferite della violenza e dell’ingiustizia: giovedì 9 maggio a Piove di Sacco con Daniela Marcone

L’agape che sana le ferite della violenza e dell’ingiustizia: se ne parla il 9 maggio alle 21 a Sant’Anna di Piove di Sacco con Daniela Marcone, vicepresidente di Libera, referente nazionale per l’Area memoria e testimone vittima di mafia: il padre Francesco Marcone, direttore dell’Ufficio del registro di Foggia, fu ucciso il 31 marzo 1995

L’amore che sana le ferite della violenza e dell’ingiustizia: giovedì 9 maggio a Piove di Sacco con Daniela Marcone

Il titolo dell’incontro è “Agape. Trattare con gentilezza. L’arte del perdono”, moderato da don Giorgio De Checchi, membro del collegio dei Garanti di Libera. La sua sarà una riflessione personale, di tipo umano e non teologico, di una persona che ha sempre avuto fede e non l’ha mai persa neanche nei periodi più difficili. «Quando viene ucciso papà – racconta – la mia vita cambia completamente; al funerale di stato ho pronunciato delle parole che hanno colpito molte persone. Avevo 26 anni, non mi ero mai posta il problema del perdono e, nel salutare papà, dissi che perdonavo chi lo aveva ucciso. Mi sono sempre chiesta come mai avessi pronunciato quelle parole liberatorie. Sentivo che il patto con gli altri uomini si era rotto e credevo che quella frattura fosse definitiva e che in qualche modo inquinasse l’amore per la nostra terra, per gli altri, i più fragili e deboli, che ci aveva insegnato papà. Ritengo di aver pronunciato quelle parole per ricordarmi che mio padre faceva parte della comunità degli umani e non era un estraneo, anzi, e che probabilmente il male che gli era stato fatto era qualcosa da condannare e da comprendere, nel senso di capire che cosa era successo nella nostra terra». Non c’è rabbia e neanche odio, ma solo desiderio di verità e giustizia, perché altre persone non vivano lo stesso male. «Poi l’impegno di Libera mi ha portato a riflettere di nuovo e interrogarmi sul significato delle parole di don Tonino Bello, pronunciate quando venne ucciso il sindaco di Molfetta, negli anni ‘90: sarebbe più comodo se chi ha ucciso fosse un mostro, ma in realtà è un “nostro”. Sembrano facili e scontate da comprendere, ma in realtà richiedono un grande esercizio su se stessi. Richiedono un impegno, un guardarsi dentro e nello stesso tempo all’esterno. Probabilmente l’amore che ho sempre sentito per gli altri è stata la mia vera guida per non farmi vivere sentimenti di rabbia e per non permettermi di rompere definitivamente il legame con il resto dell’umanità». 

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