Filippo Franceschi. Alle origini di un pastore. Il viaggio dei preti padovani nei luoghi del vescovo a 35 anni dalla morte
Filippo Franceschi Un gruppo di preti padovani ha visitato i luoghi in cui è nato e cresciuto a 35 anni dalla morte e a 100 dalla nascita (il prossimo 15 maggio)
Subito dopo Pasqua, una ventina di preti padovani – insieme al vescovo Claudio – ha partecipato a un viaggio nei luoghi che hanno visto nascere e crescere il vescovo Filippo Franceschi, scomparso 35 anni fa (il 30 dicembre 1988), e di cui ricorrono – il prossimo 15 maggio – i cento anni dalla nascita. «Il vescovo Filippo è all’origine della mia seconda nomina – racconta don Francesco Sandrin, classe di ordinazione 1981, uno dei partecipanti al viaggio – Mi ha mandato a studiare a Roma, perché imparassi un metodo d’azione per una efficacia più reale nel mondo e nella Chiesa. Una formazione culturale e teologica sempre più profonda. Ma c’è un motivo più importante per cui avevo partecipato anche al viaggio in memoria di Pellizzo, l’anno scorso: vivere in maniera speciale l’ultima delle quattro note della nostra fede nella Chiesa, quella “apostolica”, dopo appunto le tre “una, santa, cattolica” della tradizione ricevuta in dono». «A parte la ricorrenza del centenario, per me questo viaggio era un’occasione per “riscoprire” il pastore che aveva scelto di preparare la Chiesa di Padova al percorso sinodale, oggi giunto alle fasi cruciali della sua attuazione – sottolinea don Leonardo Scandellari, classe di ordinazione 1992, un altro dei partecipanti – Speravo altresì di poter meglio comprendere ora la figura del vescovo Filippo e la sua opera, di quanto fossi in grado di capire negli anni della sua presenza a Padova, quando la mia consapevolezza su questi temi era per forza di cose limitata. Il mio ricordo personale su di lui, infatti, risale ai primi anni di Seminario, in cui le occasioni di incontrare il vescovo erano poche, al di là di quelle ufficiali, e solo in parte mi riusciva di comprendere le esigenze e le questioni che si ponevano alla Diocesi e alla Chiesa italiana. Le immagini più impresse nella mia memoria su mons. Franceschi, peraltro, si riferiscono – come per molti altri, credo – ai mesi in cui la malattia lo aveva portato a impartire al popolo cristiano un magistero ben diverso da quello abituale». Del vescovo Filippo, don Sandrin ricorda «una personalità non comune, appassionata della vita umana ed ecclesiale, illuminata da una fede cristiana, ricevuta e vissuta profondamente nella sua storia. Indimenticabile sarà per me l’aver raggiunto e visto il suo paese natale: quel gruppo di case a 630 metri di altezza chiamato Brandeglio, uno dei 21 borghetti sparsi tra i colli del vasto territorio nel Comune di Bagni di Lucca. La celebrazione con tutte le autorità locali e i pochi anziani ancora presenti sul posto ha preso radici dalla Chiesa dedicata alla Madonna Assunta con il rito introduttivo davanti al fonte battesimale del piccino Filippo, nato a due passi dalla Chiesa». «Docebat a ligno: come Gesù, ci è stato maestro dalla croce», aveva detto il card. Marco Cè all’omelia per le esequie del vescovo Filippo – ricorda don Scandellari – Queste parole sono risuonate durante la giornata dedicata interamente al “pellegrinaggio” a Bagni di Lucca, dove mons. Franceschi era nato e vissuto nell’infanzia. È stato il centro e il cuore del nostro viaggio. La memoria di quel tratto di storia della Chiesa italiana in cui si inseriscono la vita e il magistero del vescovo Filippo, si è saldata con naturalezza a quella dei mesi in cui la sua vicenda terrena è giunta a una prematura conclusione. L’Azione cattolica italiana, ricordando il suo servizio come assistente nazionale del Settore Giovani, lo aveva definito “un pastore pellegrino con i laici”. Mi sembra una sintesi efficace: parla di un cammino che come Chiesa siamo chiamati a percorrere, e della necessità di seguirlo assieme, senza dividerci né mascherarci. Mi sono sentito provocato a mettere in discussione un mio modo di vedere ancora troppo centrato sulla tenuta delle strutture tradizionali delle nostre comunità (secondo un detto tedesco, «tradizione è conservare il fuoco, non la cenere»); e richiamato a un ministero quotidiano di accompagnamento e sostegno, in ascolto delle voci di profezia che lo Spirito suscita nel popolo di Dio, senza imporre i miei criteri abituali che facilmente mi impediscono di riconoscere la presenza discreta e fedele del Signore in mezzo alla sua Chiesa»