Festival Biblico. Agape chiede di costruire un “noi”
Dio è amore. È l’affermazione fondamentale della Prima lettera di Giovanni. «L’uomo può amare ed essere amato, colorare le sue relazioni di agape, ma non è amore»
«L’affermazione fondamentale della Prima lettera di Giovanni è: “Dio è agape” (1Gv 4,8). Dire questo non significa sacrificare Dio all’amore e l’amore a Dio. Il rischio sarebbe di ridurre Dio a equivalente simbolico di una relazione altruista oppure di divinizzare l’amore instaurando una relazione fusionale con Dio. Significa invece che Dio è agape, non l’uomo. L’uomo può amare ed essere amato, compiere gesti di agape, colorare di agape le sue molteplici relazioni, ma non è amore». È così che, Luciano Manicardi, monaco di Bose e biblista, entra nel vivo del tema del Festival biblico – agape – che ha come riferimento un versetto della Prima lettera di Giovanni: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio» (4,7).
Continua Manicardi: «Per noi umani l’amore si gioca all’interno di polarità, sicché agape richiede discernimento, lotta e scelta. Agape presenta una dimensione drammatica. Cogliamo qui, nel passaggio da Dio all’uomo, la bruciante attualità dell’agape e come essa giudichi e orienti l’agire dei cristiani interpellandoli non solo sul piano interpersonale, ma ponendoli di fronte a scelte radicali anche sul piano sociale e politico, economico ed ecologico: cura invece di guerra; contemplazione invece di consumo, gratuità invece di sfruttamento; perdono invece di vendetta; ospitalità invece di respingimento; compassione invece di indifferenza; responsabilità invece di incoscienza; condivisione invece di accumulo; inclusione invece di discriminazione. In sintesi: l’agape chiede di costruire un “noi” uscendo dall’“ego”, anche se fosse l’ego di un gruppo o di una nazione».
Entriamo nei significati di agape, per l’uomo e la donna di ogni tempo, a partire da quello etimologico.
«L’etimologia di agape è sconosciuta. I traduttori greci dell’Antico Testamento hanno tradotto la radice ebraica ’hb con il termine (agápe) e il verbo (agapáo) preferendoli a éros/erân e filía/fileîn, più impregnati di calore umano. E li hanno preferiti proprio per la loro minore carica affettiva. È così che agápe e agapáo, quasi sconosciuti al greco prebiblico, di significato sbiadito e blando in quanto indicavano un amore semplice connotato da stima e accettazione cordiale, hanno assunto rilevanza e sono diventati termini chiave dell’impianto rivelativo ed etico del Nuovo Testamento. Per mostrarne le ricadute nell’oggi, sottolineo due elementi. Agape indica normalmente l’amore da persona a persona: si riferisce cioè alla relazione a tu per tu. Questo significa che applicato a Dio (“Dio è agape”), Dio è agape se diviene un tu, un interlocutore vivente dell’uomo, una presenza dialogica. Se Dio resta un ciò, oggetto di parola e pensiero, diviene un idolo, fattore di violenza e inumanità, di fanatismo e intolleranza. Applicato alle relazioni intraumane e interumane, proprio il suo carattere sbiadito di partenza, che non richiede un coinvolgimento di attrazione e di passionalità, ha portato questo “amore” ad applicarsi perfino a chi amabile non è, come il nemico. E dunque a raggiungere una portata universale».
Quale “potenza” si genera dalla relazione tra un Dio che è amore, e che per amore ha donato il Figlio suo, e gli uomini... che Dio stesso invita ad amarsi gli uni gli altri?
«L’agape conosce un’infinità di sfumature e di volti. Non è qualcosa di troppo alto e inattingibile, ma la si esercita nel quotidiano delle relazioni, nel qui e ora, e dunque diviene invito alla responsabilità verso l’altro, ogni altro, rivolto a tutti e a ciascuno. E poiché la Prima lettera di Giovanni non ha il monopolio del discorso sull’agape, possiamo riferirci anche alla pagina di Matteo del giudizio universale (25,31-46). Quel testo dice che fare il bene a un povero, dare da bere a un assetato, accogliere un senza casa, curare un malato, visitare un carcerato, è compiere quelle azioni nei confronti di Cristo stesso. Non perché quella persona non sia un povero, un assetato, un carcerato o un homeless, o perché non sia un nome e un volto preciso, ma perché Dio è in quell’amore, in quella uscita da sé in totale gratuità. Anzi, Dio è quell’amore: Dio è agape. È la logica del tutto nel frammento. Del divino nel quotidiano».
Il suo intervento di venerdì 10 maggio a Padova si focalizzerà su "Cantico dei Cantici. Il poema divino dell’amore per ogni tempo". Posto che il Cantico è un dialogo tra due innamorati, per definirlo in maniera basica... ma senza "mancare di rispetto" al testo, le chiedo: cosa c'entra Dio? Come parla attraverso il Cantico e le parole dei suoi protagonisti?
«Al centro del Cantico c’è l’amore di un uomo e di una donna, un amore che solo quando è colto nella sua “letteralità” e “materialità”, può anche rivelare la sua valenza simbolica. La metafora dell’amore umano attraversa l’intera Bibbia per significare il rapporto di Dio con il popolo, ma nella parola di Dio dev’esserci immediatamente il rapporto dell’amante con l’amata, cioè il significante senz’alcun rimando al significato. Non si tratta quindi di intendere il Cantico come un’allegoria ritenendo che solo rimuovendo l’accezione umana, carnale, corporea dell’amore esso possa avere dignità di cittadinanza nella Bibbia. In questo senso, non può stupire che in esso manchi ogni esplicito riferimento religioso a parte il rimando all’amore come “fiamma del Signore” (8,6). Questo è l’unico passo in cui ricorre il nome di Dio. Nel Cantico non si deve sostituire Dio all’amante o pensare che il partner maschile sia divinizzato; ciò che è divino, nel Cantico, è ciò che intercorre fra gli amanti, è la loro relazione. Potremmo vedere in questa dimensione del Cantico la sua “laicità”».
Com'è che il Cantico - citando il titolo del suo intervento - è un "poema divino dell'amore per ogni tempo"?
«In quella laicità di cui parlavo vi sono anche la modernità e l’universalità del Cantico. Il Cantico canta l’amore erotico celebrando il corpo e la parola. Il corpo vi appare come il luogo dell’alleanza e la parola, che dice il corpo, che canta e proclama la bellezza del corpo della persona amata, fa sì che la donna sia il luogo in cui il mondo prende forma per l’uomo e l’uomo per la donna. Il corpo dell’amata è un microcosmo in cui si concentrano tutte le bellezze della natura (colombe, pendici del Galaad, spicchio di melagrana, cerbiatti, gigli, ecc.) e della cultura (monili, opera di mani di artista, torre di avorio, ecc.). Nell’esperienza dell’amore si esperisce il tutto nel frammento. Attraverso il corpo dell’amata l’amante riceve il mondo come pieno di senso e di bellezza e viceversa. Inoltre nel Cantico è la donna che parla più del suo compagno: vi è una dimensione accentuata di femminilità nel Cantico che sembra far emergere la donna come vera protagonista. E se il Cantico conosce la dimensione sessuale dell’incontro fra gli amanti, esso fa abitare la parola nella loro differenza sessuale e diviene dialogo. Il Cantico è pura e integrale dialogicità».