Esuli e itineranti come gli israeliti. Esperienza di un pellegrinaggio... a metà. Anche no
Partiamo dal ritorno. Di fronte all’ignoto tutti sentiamo la precarietà e la fragilità della nostra condizione.
È quanto abbiamo provato anche noi (io e un nutrito gruppo di insegnanti), pellegrini in Terra Santa, quando le autorità israeliane nel giro di poche ore ci hanno costretto a concludere anticipatamente la nostra permanenza a Gerusalemme e a fare ritorno in Italia, a causa del Covid-19.
Questa paradossale situazione ci ha fatto molto riflettere: ci siamo sentiti anche noi un po’ “profughi”, respinti, guardati con sospetto perché possibili “portatori del virus”; noi, comunque, pur nell’incertezza eravamo in situazione protetta, con tutti i comfort e le salvaguardie… a fortiori il pensiero è corso a chi invece è davvero profugo o esule, a tanti donne, uomini e bambini costretti per giorni in mare o accampati ai confini degli Stati e respinti perché ritenuti infetti dal virus della miseria e della povertà.
Al di là del “coronavirus”, forse non ci siamo accorti che il virus più pericoloso resta quello dell’indifferenza e della discriminazione e che l’antidoto migliore è quello di recuperare il senso della fraternità, sentendoci uniti e responsabili gli uni degli altri. Anche questo ci hanno insegnato questi intensi giorni trascorsi alla scuola di Gesù Maestro! Chissà che nelle nostre scuole, dopo la dura prova che stiamo vivendo, si trovi il tempo di parlare anche di questo e di condividere pensieri buoni che fanno bene al singolo e a tutta la comunità.