“Non presterò giuramento”: il martirio di Josef Mayr-Nusser
Ottant’anni fa, Josef Mayr-Nusser rifiutò di giurare fedeltà a Hitler, pagando con la vita la sua scelta di coscienza. Beato dal 2017, la sua testimonianza di fede, coraggio e responsabilità resta un esempio attuale di resistenza al male
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È l’alba del 24 febbraio 1945. Ottanta anni fa. Alla stazione di Erlangen, nei pressi di Norimberga, c’è un treno fermo. Destinazione: Dachau. Non può proseguire perché i binari sono stati bombardati. Nel carro bestiame è calato il silenzio. Qualcuno si fa un segno di croce. Josef giace immobile. Non ce l’ha fatta. Gli anatomopatologi diranno: edema da fame. Con sé ha un piccolo messale, un vangelo, un rosario. Tutti segni di appartenenza a una comunità e a una storia che, al di là delle apparenze, non finirà lì.
Il viaggio che condusse il bolzanino Josef Mayr-Nusser su quel binario morto era cominciato a Konitz, nella Prussia Occidentale, oggi Polonia. Nell’edificio di un ex manicomio le reclute avevano concluso il periodo di formazione e si preparavano al giuramento. Non reclute qualsiasi: SS combattenti. Josef (Pepi per gli amici) era stato arruolato di forza, in contravvenzione al diritto internazionale, in quanto cittadino italiano, benché residente in una regione occupata dal Terzo Reich (la Zona di operazioni delle Prealpi comprensiva delle provincie di Bolzano, Trento e Belluno). Era partito da casa il 7 settembre 1944, lasciandosi dietro la moglie Hildegard e il piccolo Albert, che da una settimana aveva compiuto il primo anno di vita.
Nato nel 1910 e cresciuto al maso Nusser, sede dell’azienda vitivinicola familiare alla periferia di Bolzano, Josef aveva perso il padre Jakob in guerra, ucciso dal colera nei pressi di Gorizia. La madre Maria si era ritrovata con sei figli piccoli da tirare su. Josef è il quarto. Avrebbe voluto studiare, amava osservare le stelle. Si diplomò alla scuola commerciale e cominciò a lavorare come contabile e cassiere. Uno come tutti noi. Fu nell’ufficio della ditta che conobbe Hildegard. Donna coraggiosa con cui condivise l’impegno nell’associazionismo giovanile.
Amava leggere, Josef. Studiò Tommaso d’Aquino che gli fornì la prospettiva per guardare il mondo da un punto di vista cristiano.
Si appassionò per la figura di Tommaso Moro, rafforzando la convinzione che è necessario obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini. Un’idea niente affatto scontata nell’Alto Adige degli anni Trenta, stretto fra due pericolose dittature. Quando nel 1934 fu chiamato a guidare i Giovani di Azione cattolica della parte altoatesina della diocesi di Trento (che allora comprendeva Bolzano e Merano), la sua preparazione e il suo coraggio seppero animare una comunità nell’ottica del Vangelo. Con uno sguardo sempre attento alla carità politica e alla carità tout court, che coltivò soprattutto nel movimento vincenziano.
Quella comunità di giovani fu per molti una scuola nella quale, insieme, ci si formava una coscienza orientata al bene e alla verità. Senza astrazioni. Leggevano insieme il Mein Kampf di Hitler per affinare le abilità del discernimento e poter dire con chiarezza che l’ideologia della razza, dell’antisemitismo, della violenza, del sangue e del suolo non ha nulla a che vedere con la Buona Notizia cristiana. All’inizio del 1938 aveva detto ai suoi giovani: “Intorno a noi c’è il buio”. “In questa situazione dobbiamo dare testimonianza e vincere questo buio con la luce di Cristo. Dare testimonianza oggi è la nostra unica arma, la più efficace”.
Alla moglie Hildegard, dal campo di addestramento di Konitz, scrisse (fine settembre): “L’impellenza della testimonianza è ormai ineluttabile, perché due mondi si stanno scontrando”. “Prega per me, Hildegard, affinché nell’ora della prova io agisca senza timore e senza esitare, lo devo a Dio e alla mia coscienza”.
Il 4 ottobre 1944, memoria di san Francesco, le reclute sono riunite nel salone e il maresciallo maggiore spiega loro il senso del giuramento al Führer, da pronunciarsi solennemente il giorno dopo. Fedeltà assoluta fino alla morte. Pepi alza la mano, chiede la parola, si mette in piedi e dichiara, di fronte ai compagni atterriti, che lui quel giuramento di fedeltà incondizionata a Hitler non ha intenzione di prestarlo. Né l’indomani né mai.
Raccontò Franz, un commilitone: “Tutta la compagnia assistette come paralizzata, non solo io, ma molti altri ebbero l’impressione che Pepi in quel momento avesse firmato la sua condanna a morte”. A Hanskarl che gli chiedeva se ne valesse davvero la pena, Pepi rispose con quelle parole che oggi appaiono tanto più necessarie e attuali: “Se mai nessuno ha il coraggio di dire loro che non è d’accordo con le loro visioni nazionalsocialiste, le cose non cambieranno”. Una sintesi efficace di cosa può essere una politica che guarda al bene comune.
Josef fu messo agli arresti. Un processo tenutosi a Danzica presso il tribunale delle SS lo condannò a morte. Il convoglio diretto a Dachau partì ai primi di febbraio, fece tappa al campo di Buchenwald, proseguì verso sud e dovette fermarsi alla stazione di Erlangen. Il 23 febbraio i compagni chiesero alle guardie di portare Pepi in un ospedale. Stava male. Il medico che lo visitò capì che non c’era nulla da fare e lo rimandò indietro.
Le ultime parole di Josef, la sera, furono: “Vergelt’s Gott für alles, grazie di tutto”.
Josef Mayr-Nusser, testimone della coscienza e della carità, del discernimento comunitario e della responsabilità personale, è stato riconosciuto martire da papa Francesco nel 2016 e proclamato beato nel marzo 2017.
Paolo Valente