Carcere. Suor Vessoni: “Portare la speranza dietro le sbarre con gesti concreti e prossimità”

Far abitare la parola “speranza” anche nelle carceri. L’apertura della Porta Santa nel penitenziario di Rebibbia rappresenta, come spiega suor Nicoletta Vessoni in questa intervista, un invito a un impegno quotidiano verso questi nostri fratelli. “Urge vivere in questo periodo storico-politico segni molto concreti di attenzione verso il mondo del carcere, segni di accoglienza e prossimità, mettendo in atto risposte concrete”

Carcere. Suor Vessoni: “Portare la speranza dietro le sbarre con gesti concreti e prossimità”

Papa Francesco, aprendo la Porta Santa nel carcere di Rebibbia a Roma lo scorso 26 dicembre, ha invitato a “non perdere la speranza”: “spalancare la Porta – ha detto – è un bel gesto, ma quello più importante è aprire il cuore”. Ma cosa vuol dire “speranza” per i detenuti? “Forse sono troppo banale – dice al Sir suor Nicoletta Vessoni – ma non credo che l’attuale sistema permetta ai detenuti di poter guardare al di fuori del carcere e pensare a un’opportunità di vita ‘normale’. Per dare corpo a questa possibilità bisogna che l’istituzione carcere, oggi più che mai, sia capace di mettere in moto altre modalità, cercando di non far passare sotto la parola ‘sicurezza” tutte le restrizioni che ormai vanno in continuo aumento. La parola speranza bisogna farla abitare in un luogo come questo”. Suor Nicoletta Vessoni, operatrice da 12 anni in carcere a Catanzaro  e responsabile nazionale delle religiose che lavorano nei penitenziari. L’apertura della Porta Santa a Rebibbia, la seconda dopo quella di San Pietro, “credo sia stato un messaggio molto chiaro e forte, già anticipato nella bolla di indizione che ha posto la centro della riflessione il carcere, come spazio da attenzionare. Credo che quel gesto – prosegue la religiosa – mi pare voglia dire, a noi chiesa, di vedere nel carcere il luogo della grande fragilità e della sofferenza, il luogo su cui porre la nostra attenzione puntando su due direzioni: luogo nel quale urge sempre il bisogno e la necessità di annunciare la misericordia di Dio su ogni fratello e luogo sul quale attenzionare, come chiesa e a tutti i livelli, uno sguardo di predilezione e di premura tenendo a cuore la porzione di umanità che lo abita”.

Cosa ha pensato quando ha visto Papa Francesco aprire la porta santa a Rebibbia
Secondo me, quando Papa Francesco ha aperto quella porta, alzandosi in piedi e lasciando la sua carrozzina, non credo abbia pensato solamente a eventuali celebrazioni o eventi particolari. Penso invece che il gesto fatto dal Pontefice sia stato un annuncio e dentro di me risuona come l’invito ad un impegno quotidiano verso questi nostri fratelli. In questo periodo storico-politico è necessario se non indispensabile vivere segni molto concreti di attenzione verso il mondo del carcere, segni di accoglienza, di prossimità, mettendo in atto iniziative concrete che l’ordinamento carcerario ci propone, al fine di aprire strade di speranza per tanti nostri fratelli. Guai a noi se quest’anno si moltiplicheranno le funzioni e celebrazioni senza che queste siano accompagnate da gesti quotidiani di accoglienza.

Il Giubileo cosa potrebbe rappresentare per loro?
Percorsi  reali di rieducazione, stimoli e accompagnamenti che aiutano, in particolare chi è in giovane età a sostare il meno possibile in un posto come quello e e opportunità concrete per essere condotti verso un domani di riscatto e di vita normale.

Cosa si può fare per cambiare la situazione?
Il carcere così com’è oggi è un istituto ormai superato che non risponde ai compiti che dovrebbe avere e cioè quello della rieducazione, quindi va pensato un sistema diverso, forse più snello ma che permetta di mettere in atto un vero recupero della persona.

E la Chiesa cosa può fare?
Oggi più che mai siamo chiamati a stare dentro questo sistema abitato da persone con tante e gravi fragilità. Ma dobbiamo starci – esserci con un chiaro compito di profezia e di accoglienza delle persone e delle persone più fragili. Essere in questo luogo con una pastorale significativa ed efficace a favore dei detenuti. Ma non solo: dobbiamo  al tempo stesso porre una grande attenzione anche agli operatori che gestiscono il carcere: polizia penitenziaria, operatori sanitari e amministrativi.

Quale ruolo può avere il volontariato e la presenza in carcere?
Un ruolo fondamentale, perché può arrivare lì dove l’istituzione non giunge; può intercettare e accogliere i bisogni dei detenuti, può essere una presenza di supporto che in modo disinteressato vive la prossimità con i fratelli in situazioni critiche come lo è chi è in carcere e può aiutare ad abbattere lo stereotipo della società che vede il carcere come un luogo da dimenticare.

Può raccontarci alcuni esempi di come la presenza in carcere della chiesa ha “risollevato” la situazione di un detenuto/a?
La funzione della chiesa in carcere ha solo ed esclusivamente un compito: vivere la dimensione della consolazione ed essere ministri della misericordia divina che passa attraverso azioni rivolte al detenuto stesso o che, oltre il detenuto, coinvolgono i suoi rapporti famigliari. Forse potrebbe sembrare molto semplice o ovvio ma mi vengono in mente alcuni percorsi di catechesi che per qualcuno hanno avuto ed hanno il dono di diventare, incontrando Gesù, opportunità di vivere con un altro spirito la loro detenzione. Facendo memoria, parecchi fratelli che partecipando ai momenti formativi offerti da noi della cappellania, iniziano un percorso che permette loro di prendere consapevolezza della situazione e quindi di iniziare un cammino, a volte lungo, spinto dalla necessità di ripensare la vita in una dimensione nuova. Mi ricordo un detenuto che, ad un certo punto durante un incontro, mettendosi le mani nei capelli, si mise ad urlare dicendo: “ho colpa solo io la colpa di quanto mi è successo”. Ecco, credo che queste che siano le opportunità più grandi che possiamo offrire ai detenuti, occasioni propizie per un incontro con se stessi e con la responsabilità e le ricadute delle proprie azioni. Posso infine riportare un dialogo appena avvenuto con un fratello all’interno del carcere nel corso di una catechesi. Mi diceva che quando morirà, trovandosi davanti a Dio, si troverà di fronte a tre opzioni: inferno, purgatorio, paradiso. “non lascerò – mi ha detto – che Dio mi dica dove andare. Sarò io stesso a buttarmi nell’inferno perché solo questo mi merito”. Da qui invece è nato uno scambio di pensieri e riflessioni sulla dimensione di Dio che perdona sempre, tutto, come ripete Francesco, perché non giudica secondo il metro nostro. Essere nel carcere è un invito a far riscoprire, al nostro amico come a tutti, la dimensione unica di Dio che è amore. Si aprono così varchi e spazi di speranza che illuminano con una luce nuova l’esistenza e che permettono di guardare avanti con la forza stessa della Speranza.

Raffaele Iaria

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Fonte: Sir