Terra terra... Sfogliare il Cantico in volo, diventa un esercizio spirituale
Fu un caso o forse no, che mentre volavo da un capo all’altro del nostro paese, mi trovassi tra le mani il libro di Carlo Carretto Io, Francesco. Un libro a suo modo storico, di un trentennio fa, ma che suggerisco anche a voi, regalo di un amico che conosce la mia passione “storica” per Francesco di Assisi e trovò il libretto in un mercatino dell’antiquariato.
Scorrevo così quelle pagine, sospeso tra cielo e terra, in quello spazio non definito dove le stesse parole prendono nuovo corpo e significato.
Tra le tante intuizioni di Carretto, vi è quella di aver aggiunto in postfazione un “piccolo ufficio divino tratto dalle parole e preghiere di Francesco”. È bastato girare qualche pagina ed ecco l’immancabile Cantico delle creature.
Chissà quante volte l’ho letto nella stessa maniera: per questo ero tentato di voltare pagina. Ma fu per caso, o forse no, che il mio occhio cadde su elementari parole, come aria, acqua, terra e fuoco, proiettandole inconsapevolmente su quanto stavo ammirando da quell’ottica privilegiata che è il finestrino di un aereo.
Mi pareva che l’essenza stessa del Cantico mi fosse più chiara, grazie a quel vedere le cose da un’altra angolazione che ne trasformava le stesse parole.
Quel «Laudato sii... per messer lo frate sole lo quale è iorno, e allumini noi per lui» a ottomila metri d’altitudine o poco più, è ancora più splendente. Accecante. Come quel suo smorzarsi all’orizzonte, tra colori radianti d’ogni splendore.
«E per sora Luna e le stelle, clarite e preziose e belle», il cielo stellato a un passo dalla stratosfera ha qualcosa di smisuratamente sterminato. E ti senti proiettare in quella notte infinita, particella del cosmo e pirata solitario con i tuoi pensieri tra gli spazi siderali.
«Per frate vento e per aere e nubilo e sereno e onne tempo», quando senti di galleggiare sospinto dai venti. E vedi le ali dispiegate dell’aereo vibrare dalla forza dell’aria che ti fa credere d’esser fermo. Mentre invece oltre che volare stai sfrecciando. E qui basta un refolo d’aria per sentire il velivolo fibrillare. E su, su sfiorando le nuvole fino a sfociare in quel mare bianco, schiumoso e immacolato. Fin sopra l’oceano di nuvole, autentico incanto, che ti fa ritrovare lo stupore del bambino che sei stato.
«Per sora acqua…» che quassù è un passaggio da colore in colore: dall’azzurro tenue del cielo a quello profondo di oceani e mari.
«Per frate foco e sora nostra madre terra la quale ne sostenta e governa», la terra che in quota non calpesti più. Ed è da qui che scopri cosa sia la terra, con le sue diverse forme. Estese e senza confini. Percependo il piccolo che sei e siamo. Pensando alla casa che lasciamo o ritroviamo, con quel desiderio della meta come difficilmente provi quando i tuoi piedi sono ancorati per terra. Le città sono piccoli agglomerati di tetti e i paesi puntini di uno sterminato presepio. Comprendi il poco che siamo, spesso racchiuso nelle poche stanze della nostra vita che in terra occupiamo. Tutto, ma proprio tutto dall’alto è destinato a mutar d’aspetto, vedendo il mondo con lo sguardo di quell’Altissimo onnipotente bon Signore. Quello stare nell’infinitamente grande, ti offre il valore dell’infinitamente piccolo che hai. Dell’effimero di cui ci rivestiamo, e ci mostriamo. Di quella stupidità umana che sono i fuochi dell’odio che ardono dovunque su questo nostro pianeta che più che custodirlo, dominiamo e sfruttiamo.
«Per sora nostra morte corporale dal quale nullo omo vivente po’ scampare» stando seduti su un seggiolino con la cintura allacciata a migliaia di metri d’altezza, mai parole ti sembrano più vere. Nel sentirti ospite dell’esistenza, con il peso di quel passaggio che è ben più di una viaggio da un continente ad un altro. Divieni piccolo, perché piccoli restiamo. Così impotente da renderti autenticamente umano. Percepisci in cuor tuo, magari tra un passaggio di una hostess e l’altra, che il poco che ti fa felice è spesso là ad aspettarti. Che anche un bicchiere d’acqua ha un valore che molto spesso ignoriamo.
E il Cantico si chiude non a caso con queste emblematiche parole: «..con grande umiltate». Quell’umiltà che ti viene imposta e regalata, quando perdi la terra da sotto i piedi, lasciando gli affetti e voli verso altro. Quando l’occhio vede nuovi cieli e nuove terre, i pensieri cambiano senso e forma.
Un volo che è come un esercizio spirituale.