Un detenuto in canonica: così la misericordia si fa storia vera
A Campodarsego l’anno della misericordia è iniziato in anticipo. Precisamente il 27 agosto, quando le porte della canonica si sono aperte per accogliere Enrico. 54 anni, detenuto da dieci al Due Palazzi di Padova, in gravi condizioni di salute. Durante l’estate si è evidenziata la necessità di cure urgenti, ma anche – e soprattutto – di un contesto accogliente, che potesse «combattere con lui per la guarigione».
Sono le parole di don Leopoldo Voltan, parroco di Campodarsego, che dopo il primo ingresso in carcere per celebrare l’eucaristia, nel 2013, ha voluto che anche la sua comunità vivesse quest’esperienza.
E poi ha organizzato un incontro tra il suo consiglio pastorale e don Marco Pozza, che guida l’équipe della parrocchia del carcere, per capire cosa si poteva costruire insieme.
Così è cominciato il gemellaggio tra le due parrocchie, che si è concretizzato nella disponibilità ad accogliere un detenuto. Ed Enrico è arrivato a Campodarsego che le braccia erano già aperte.
«L’accoglienza di Enrico, che per ora è agli arresti domiciliari, avviene in canonica – spiega don Leopoldo – ma è coinvolta l’intera comunità. Tutti sanno che c’è Enrico. Non sono interessati al perché era in carcere, ma che possa stare bene qui. Che possa recuperare le sue relazioni, ad esempio, con la famiglia... Anche semplicemente il fatto che lui sia qui muove tante riflessioni, percorsi personali... Vedo giovani che vengono in canonica anche solo per un saluto e che trovano una porta ancora più aperta. L’effetto più bello della sua presenza è l’accoglienza senza giudizio».
L’accoglienza di Enrico nasce da una riflessione dell’équipe che guida la parrocchia del carcere: «Dopo un anno di attività ci siamo detti: è inutile che usciamo a raccontare cos’è il carcere, perché la letteratura ci supera – racconta don Marco – C’è solo un modo per dire chi siamo: che la nostra sia una parrocchia di vetro. Dove le persone vengono dentro, toccano con mano la “carne sofferente” (come dice papa Francesco) e quando escono possono fare due cose: rimanere sulle loro idee o cambiarle. L’importante è che abbiano toccato. Quello che abbiamo cominciato a fare, e continueremo, è far fare esperienza di povertà. In carcere e fuori, come sta succedendo a Campodarsego. Che ha accolto un povero e si sta lasciando cambiare dalla sua presenza. Diventa l’occasione per fare verità su se stessi... E se Cristo dice sono la verità, accogliendo un povero accogli lui. È paradossale che gente come Enrico, che ha vissuto per dieci anni la detenzione più nera, ti insegni a essere libero».
Enrico, a osservarlo dopo un mese dall’arrivo a Campodarsego, si muove come se questa fosse sempre stata la sua famiglia.
Può lasciare la canonica solo due ore al mattino, ma ha costruito moltissime relazioni. «Le persone mi fermano, mi chiedono come sto, mi fanno gli auguri per gli accertamenti medici a cui devo sottopormi... Quando non posso uscire dalla canonica, c’è chi viene a trovarmi oppure mi suona il campanello per un saluto».
«Anche se Enrico non può uscire – evidenzia don Leopoldo – la sua libertà si concretizza proprio nella possibilità di entrare in relazione».
Dopo dieci anni di carcere, la prima cosa che ha chiesto Enrico quando è arrivato a Campodarsego è stato uno stendino per la biancheria. «Ero spaesato... ora mi sento a casa. Non mi sembra vero di poter mangiare una bistecca di cavallo, perché ho bisogno di ferro, o di bere il caffè in una tazzina di porcellana... E pensare che in carcere, per avere una risposta dal dottore ho dovuto buttare il materasso in corridoio e minacciare di bruciare tutto».
Don Leopoldo ed Enrico – che ha il compito di aprire la canonica oltre che di preparare i pasti – iniziano la giornata insieme: colazione e due parole.
Che tornano, queste ultime, anche in tanti altri momenti. «Ci si incontra sui temi della vita – sottolinea don Leopoldo – A me aiuta a superare la giustapposizione tra vita e fede. Ci si incontra sulla malattia, sul desiderio di guarire, sul cibo, sulle parole... Ci si incontra nel tentativo di essere persone vere. E questo non vale solo per me, ma per tutta la comunità. L’anno della misericordia assume per la nostra comunità una particolare caratterizzazione con la presenza di Enrico. Per me pregare e celebrare ha un sapore diverso, perché c’è lui».
«Ho sempre immaginato la parrocchia come un punto in cui ci si riconcilia – spiega don Marco – La canonica di Campodarsego è diventata un crocevia di riconciliazione: il carcere che si riconcilia con la città, la storia di Enrico che si riconcilia con se stesso. E la parte più difficile che spetta a lui: prendere la cornetta del telefono e ricostruire i legami con la sua famiglia. Sant’Agostino diceva: vuoi vincere il tuo nemico, mettici l’amore».
E proprio con l’amore sta facendo i conti Enrico: «Che per tutta la vita ha parlato la grammatica della violenza, declinata in varie sfumature, e nel momento in cui si trova a guardare in faccia la morte, trova un gruppo di persone che gli rispondono con la grammatica dell’amore».
In questi giorni Enrico sta aspettando di poter riabbracciare il figlio, che vive in Francia con la mamma. Ma sta anche iniziando delle terapie particolarmente invasive. «Quando a don Leopoldo ho detto di aver paura, lui mi ha risposto con due parole, e mi sono bastate: non preoccuparti».
«Noi ci siamo – conclude don Leopoldo – insieme all’équipe della parrocchia del carcere. C’è un’intera comunità che è vicina a Enrico per la sua guarigione. È il nostro desiderio: fare la battaglia con lui».