«Un uomo non può stare a guardare»
È appena uscito nelle sale cinematografiche il film Fuocoammare, che ha fatto vincere l’orso d’oro della Berlinale al regista Rosi. Per costruire la storia e concludere le riprese, il regista ha trascorso nell’isola di Lampedusa un anno: un tempo lungo, per capire, osservare e raccontare la storia di oggi, così simile a quella dei nostri emigranti di un secolo fa.
In un’intervista ha detto qualcosa che non importa molto al film, ma che ci dovrebbe interessare molto.
Ha detto che «questa è la più grande tragedia dopo l’Olocausto; non possiamo lasciare che il Mediterraneo diventi la tomba di chi fugge da guerre, fame e disperazione. Le persone non sono numeri».
Proprio così: le persone non sono numeri, perché i numeri non hanno pelle, carne e ossa. I numeri vanno bene solo per conoscere la dimensione del fatto, della tragedia. Le persone sono altra cosa.
Quando ad annegare erano gli italiani...
Durante la cosiddetta “grande migrazione” di fine Ottocento e inizio Novecento, – “grande” per il numero considerevole di emigrati che partirono dall’Italia e dagli altri stati europei – le tragedie di mare furono tante.
Nel 1884 sulla nave Matteo Brazzo morirono in 20 per colera su 1.333 passeggeri, e a Montevideo furono respinti a cannonate per il timore di contagio. Nel 1891, davanti al porto di Gibilterra, il naufragio della nave Utopia si portò via 576 italiani. Quando naufragò la nave Sirio nel 1906, sulle coste spagnole, morirono in 550.
Nel 1894 sulla mitica Andrea Doria morirono 159 emigranti su 1.317. Nel 1927, nel naufragio della Principessa Mafalda al largo dello coste brasiliane, morirono in 314 (secondo il numero ufficiale, ma per i brasiliani le vittime furono più di 600): a bordo c’erano 1.259 persone, soprattutto emigranti veneti, piemontesi e liguri, assieme a migranti siriani. Era il più prestigioso piroscafo tricolore, giunto al suo ultimo viaggio prima dello smantellamento: secondo la società armatrice era in perfette condizioni; in realtà non era più considerato sicuro dagli addetti ai lavori dopo vent’anni di scarsa manutenzione e usura.
Ecco alcune tragedie lungo i cento anni della nostra emigrazione transoceanica, così simili a quelle dell’attualità, anche rispetto agli inganni e alle truffe.
Un cimitero senza nomi e senza croci
L’attualità dice che mentre i governi dell’Unione europea continuano a litigare su come gestire l’imponente flusso migratorio proveniente dall’Africa e dal Medio Oriente, la frontiera marina del sud Europa è interessata dalla consueta flottiglia di gommoni sgangherati e sovraffollati di migranti.
Il dramma più grande (che commuove pochi, e solo per poco) è rappresentato dai morti nel Mediterraneo, un esteso cimitero senza croci e senza nomi, che dal 2014 ad oggi conta 7.718 morti e solo 508 cadaveri recuperati.
«Un uomo che è un uomo non può stare a guardare» dice nel film Pietro Bartolo, il medico di tutti, rifugiati compresi, che spesso rivede in sogno quelli che non ha potuto salvare. Non si può più stare a guardare, come se tutte queste tragedie fossero una calamità naturale; come se non potessimo far niente; come se non ci riguardasse direttamente.