I due fronti aperti della sanità veneta
Il 25 novembre entrerà in vigore la legge che parifica gli orari di lavoro in sanità al resto d’Europa – 48 ore di lavoro medio a settimana, turni non più lunghi di 12 ore e 50 e 11 ore consecutive di riposo ogni 24 – : una bomba che senza nuove assunzioni potrebbe mettere a rischio i servizi. Continua intanto la discussione sull’Azienda zero: schermaglie tra maggioranza e opposizione a colpi di maxiemendamenti e progetti di legge alternativi. Il Pd propone l'"Agenzia unica sociosanitaria" e riparto finanziario, atto aziendale e piano di zona alle ex Ulss.
C’è una deadline – una linea oltre la quale non si può andare – per quanto riguarda il tema caldo, anzi bollente, di questo autunno politico veneto. Il prossimo 25 novembre sarà una data chiave per comprendere quale via imboccherà la “regina” delle competenze regionali, quella sanità che da sola “fagocita” il 70 per cento del bilancio, pari oggi a 8 miliardi e 430 milioni di euro. E le ragioni sono essenzialmente due. Da una parte è quella la giornata entro la quale la sanità veneta, come quella del resto del paese, dovrà adeguarsi alla normativa europea in materia di orario di lavoro del personale medico e infermieristico: un adeguamento che potrebbe portare o a un’assunzione di massa di nuovi sanitari – ipotesi quanto mai irrealistica – o a una pioggia di richieste di indennità da parte del personale attivo. Dall’altra, un mese prima di Natale è ragionevolmente il termine ultimo per chiudere nella quinta commissione consiliare la partita sul progetto di legge numero 23, cioè il riordino delle 21 Ulss e la costituzione dell’Azienda zero.
E su tutto questo aleggia lo spettro dei tagli o mancati aumenti che dir si voglia, che la legge di stabilità porta con sè, tema su cui Luca Zaia mercoledì scorso si è confrontato con il premier Renzi dopo il grido d’allarme lanciato dalle regioni per bocca del loro portavoce, il piemontese Chiamparino.
La scure europea
La questione orario di lavoro, per la verità assai intricata, risale a più di un anno fa, ma ora eccoci al dunque. Nei primi mesi del 2014 l’Unione europea ha aperto una procedura di infrazione contro l’Italia alla corte di giustizia europea. Motivo? Il nostro paese non rispetta le norme comunitarie in vigore già dagli anni Novanta. Secondo Carlo Palermo, vice segretario nazionale di Anaao Assomed (l’associazione dei medici del sistema sanitario nazionale), a partire dalla legge di stabilità del 2007 su questo tema sarebbe iniziato un processo di «totale deregulation» che si è trascinato fino allo scorso anno. L’esecutivo targato Renzi ha chiuso il contenzioso adeguandosi a Bruxelles per evitare le pesanti sanzioni che già si profilavano all’orizzonte, rinviando però l’applicazione delle norme proprio al prossimo 25 novembre.
Le Ulss venete devono quindi rispettare il tetto delle 48 ore di lavoro settimanale medio per medici e infermieri, turni di 12 ore e 50 al massimo e riposo minimo ininterrotto di 11 ore ogni 24. Fin qui la teoria. Prevedere che cosa succederà in pratica è pressoché impossibile, anche se è facile pronosticare che senza abbondanti assunzioni, specie sul fronte infermieristico – c’è chi parla di duemila infermieri e 250 medici – non si potrà rispettare la normativa europea a parità di servizi.
Azienda zero
Di tutto questo però a palazzo Ferro-Fini arrivano solo echi lontani. La commissione sanità del consiglio regionale, presieduta da Fabizio Boron (Lega nord), nella seduta fiume di martedì scorso ha definitivamente archiviato le audizioni sulla riforma nota ormai come “Azienda zero” e ha aperto la discussione su un testo profondamente modificato dal maxiemendamento depositato dalla maggioranza. Le novità (strutturali) firmate dai capigruppo Finco, Rizzotto, Barison, Berlato e Guadagnini, sono quattro: la riabilitazione della conferenza dei sindaci; il ritorno del direttore dei servizi sociali nelle sette mega Ulss provinciali previste; la programmazione rimane alla giunta e al consiglio – attraverso la rediviva area socio-sanitaria – e non passerà all’Azienda zero, di cui sono state ridisegnate le competenze. Ora la maggioranza punta al via libera in commissione già entro il 15 novembre, sette giorni dopo la scadenza dei termini per presentare osservazioni da parte dei 579 comuni del veneto.
Critico il giudizio su questa riforma da parte del consigliere Pd Claudio Sinigaglia, che si chiede innanzitutto il perché di tanta fretta su una misura epocale per la sanità veneta. «Qual è il problema se non si chiude entro il 31 dicembre, la nomina dei direttori generali? Facciamo una proroga e prendiamoci un anno per decidere a ragion veduta». Le modifiche introdotte dal maxiemendamento di maggioranza sono largamente insufficienti per Sinigaglia: «L’area socio sanitaria regionale che viene ripristinata, avrà un suo direttore che entrerà in conflitto con il direttore dell’Azienda zero. Azienda zero che ha alcune modifiche di facciata, ma sostanzialmente governerà le altre Ulss, più che essere al loro servizio. È necessario un accordo quadro tra le Ulss per raggiungere gli stessi obiettivi dell’Azienda zero, senza però creare un altro carrozzone».
Uno dei punti centrali del progetto di legge del Partito democratico, (il numero 74, alternativo a quello della maggioranza) è la nascita dell’Agenzia unica veneta sociosanitaria con funzioni tecniche e amministrative in supporto alle Ulss. «Il grande rischio di questa riforma di Zaia è che salti l’integrazione tra sociale e sanità. È evidente che il testo della maggioranza è redatto da chi sa di ospedale e non di territorio». Per questo Sinigaglia è convinto che se anche le Ulss saranno accorpate – ma questo è stato il punto più dibattuto durante le audizioni – i finanziamenti dovranno essere ripartiti tra le ex Ulss, che diventeranno distretti, e non a livello provinciale: «Il rischio altrimenti è che aziende sane finiscano per pagare i debiti di quelle in rosso. Il caso più eclatante è quello della provincia di Padova, dove le aziende sanitare dellAlta e della Bassa sono sostanzialmente in pari, mentre la cittadina Ulss 16 ha debiti consistenti». E sempre sulla base delle ex Ulss devono considerarsi l’atto aziendale e il piano di zona che programma i servizi socio sanitari: «Sarebbe questo anche l’unico modo per continuare a dare alle conferenze dei sindaci un ruolo veramente significativo».