Dopo la strage di Dacca. Enzo Pace: "Le religioni tornito a scuola"
"Queste azioni nascono in delle società che hanno accumulato un enorme tasso si violenza, di repressione e svilimento della dignità umana; società che noi sosteniamo come, per esempio, in Egitto - sostiene il sociologo, grande esperto di Islam - Si tratta di una strategia sottilissima che richiama la lotta armata contro il “grande satana” perché dio ci salvi. Un clima che coinvolge anche le ragazze e fa leva sulla retorica romantica di un’avventura straordinaria che porti al riscatto sociale". Da qui l'esigenza di una grande operazione educativa che torni a rendere centrale nelle scuola la cultura religiosa.
Il sociologo Enzo Pace, profondo conoscitore dell'Islam, guarda con disincanto agli autori della strage di Dacca, in una lucida analisi del fenomeno del terrorismo religioso.
Come possiamo leggere questa scelta violenta?
«Su questo problema è stata fatta una riflessione approfondita ed è chiaro quali sono gli elementi di lunga durata:
nelle società marcatamente a maggioranza musulmana l’oscillazione del potere tra il turbante e l’elmetto ha prodotto dagli anni Quaranta in poi un accumulo di violenza in nome di un apparato militare ed economico che negli ultimi dieci anni, con alti e bassi, esplode.
Ha anche prodotto segnali di volontà di democrazia e non certo di stati integralmente religiosi, ma stati giusti in cui i diritti umani sono rispettati. Per ora vediamo timidissimi risultati solo in Tunisia, pagati a carissimo prezzo, e dove si vive sul filo del rasoio se l’economia non si riprende».
Un bisogno di emancipazione quindi?
«È un bisogno delle giovani generazioni che subiscono una mancanza di risposte e guardano al mondo con la convinzione che o si emigra, oppure si sta zitti e si accetta la situazione, oppure ci si arruola in un gruppo armato perché è l’unica alternativa possibile per la propria dignità. Però usare il fucile o usare un coltello non è scontato e ci vogliono motivazioni molto elevate. La soglia psicologica viene varcata quando qualcuno riesce a convincere che se questo viene fatto è fatto per volontà di Dio.
Ci sono correnti di pensiero che non hanno mai accettato la possibilità che il testo sacro possa essere interpretabile, che il messaggio religioso dipenda dalle circostanze storiche.
Il mondo musulmano è dilaniato da questo problema delle interpretazioni del testo. Ci sono persone di fede - uomini e donne - che pensano si debba andare alla radice di questa interpretazione astorica del messaggio religioso».
Ma questa è una guerra di religione?
«No. Queste azioni nascono in delle società che hanno accumulato un enorme tasso si violenza, di repressione e svilimento della dignità umana; società che noi sosteniamo come, per esempio, in Egitto. Questa è una delle chiavi che utilizzo per respingere l’obiezione che si tratti di una guerra di religione o di civiltà. Ci sono contraddizioni nella società islamica che si sono riprodotte anche nella società europea e che generano lotte interne e tentativi di movimenti radicali per spostare politicamente masse di gente».
Da cosa origina questa scelta violenta?
«Qualsiasi tentativo di ridurre il fenomeno a situazioni sociali di degrado e pauperismo non funziona. Occorre guardare a come pensa chi organizza questa rete e quindi agli obiettivi che vengono colpiti. A Dacca i bersagli sono stati degli imprenditori il che significa un attacco allo sviluppo economico, a Tunisi venne colpito il museo del Bardo quindi il turismo e di nuovo l'economia. Si tratta di una strategia sottilissima che richiama la lotta armata contro il “grande satana” perché dio ci salvi. Un clima che coinvolge anche le ragazze e fa leva sulla retorica romantica di un’avventura straordinaria che porti al riscatto sociale».
Come possiamo salvarci da un futuro gestito dal terrorismo?
«Chi evoca la guerra di religione pensa: siamo in guerra e l’arma militare va usata. Ma serve? E se sì, fino a che punto? Serve qualcos’altro? Il controllo si fa, la guerra c’è. Chi dice siamo in guerra, dice di considerare nemico il vicino di casa e così si cade nella trappola del 2001 messa da Al-Quaeda.
Credo invece sia necessario investire energie sociali e soldi in un grande processo che coinvolga le giovani generazioni e mettere la religione nelle aule scolastiche. La religione non è un fatto privato: esiste una “santa ignoranza” e il linguaggio usato nei siti, mostra che questi ragazzi sono senza basi e trasformano i versetti del Corano in slogan ideologici. Quindi, ci piaccia o meno, la cultura religiosa deve diventare un grande oggetto d’investimento educativo».