Papà è positivo: a casa nostra il coronavirus è entrato senza bussare
Prima di quella telefonata il Covid-19 faceva parte della storia di qualcun altro. Poi ha fatto irruzione in famiglia, dettando le sue nuove regole. Ed è stato come cambiare canale: ci siamo scoperti attori di un film un po’ comico, un po’ drammatico e sicuramente sentimentale di cui non conosciamo il copione.
«Papà è positivo»: ecco le parole con cui il coronavirus si è presentato a casa nostra, due settimane fa. Non ha chiesto il permesso. È entrato e basta. Anzi, ha fatto irruzione, prendendo in ostaggio la nostra quotidianità. Essere positivi, in tempi normali, è quasi un complimento. Ma adesso no. Con il “maledetto virus” in circolazione, quell’aggettivo fa paura. Perché sa di quarantena nei casi più fortunati, di terapia intensiva, respiratori e mascherine di ossigeno in quelli più gravi. Quando ce l’hanno detto, però, noi non pensavamo a niente di tutto questo. Cercavamo, come tutte le altre famiglie d’Italia, di abituarci all’idea di dover vivere dentro a un recinto: la zona rossa era stata estesa a tutto lo Stivale.
«Hanno fatto bene, così rallentiamo il contagio evitando di intasare gli ospedali» – aveva commentato mio papà alla fine del discorso del premier Conte. Io in sella alla cyclette macinavo la mia dose quotidiana di chilometri per rendere più elastica la caviglia destra, rotta tre mesi prima in un brutto incidente stradale. I colpi di pedale seguivano il ritmo dei pensieri che mi si accavallavano in testa. Uno su tutti: «Mi chiudono la piscina! Proprio adesso che iniziavo a sentire qualche beneficio».
Il Covid-19 restava un nemico sfuggente, invisibile. Anche se, dalle pagine di un quotidiano locale, ne avevo raccontato gli effetti sulla piccola comunità di Vo’: 3.300 abitanti isolati dal resto del mondo per due settimane. I tamponi, le famiglie divise dalla quarantena, le persone ricoverate all’ospedale con cui si comunicava a singhiozzo, la preoccupazione, l’ansia, il desiderio di leggerezza e di libertà. Per quanto cercassi di immedesimarmi nelle emozioni che mi venivano raccontate al telefono da voci a volte speranzose, a volte cupe, quelle restavano le storie di qualcun altro.
Ma quella telefonata ha cambiato tutto: la sera in cui l’ufficio Igiene dell’Ulss ha chiamato per comunicarci l’esito del tampone ho capito di essere diventata una @giornalistaintrincea. Le storie degli altri stavano diventando anche la mia. A papà la febbre era salita il martedì e a farle compagnia c’erano dei fastidiosi dolori muscolari alle braccia e alle mani, di quelli che non ti permettono di stare comodo in nessuna posizione. «Colpa del giardinaggio di domenica». «Sarà un po’ di stanchezza o un’influenza». Queste spiegazioni hanno iniziato a vacillare alla notizia di un suo collega risultato positivo al test. Link epidemiologico, quarantena fiduciaria: con un colpo di catapulta termini medici mai sentiti prima sono entrati nelle nostre conversazioni. Che sia proprio coronavirus o un semplice malanno di stagione? Era questa la domanda che serpeggiava a ogni pranzo o cena. Mia mamma allargava le braccia, mio papà tossiva e si misurava la febbre. Io continuavo a pensare che sì, forse il virus aveva preso di mira anche noi. La dottoressa ci telefonava due volte al giorno per monitorare i sintomi e sollecitava il test.
La mattina del tampone si è presentato alla porta un giovane medico bianco e azzurro: gli si intravedevano solo gli occhi nella sottile fessura tra la cuffia e la mascherina. Ha infilato i due bastoncini su su fino all’attaccatura del naso e giù in gola. Sbirciavo la scena dalla porta con gli occhi socchiusi perché mi faceva impressione. E se fino a un attimo prima avrei voluto fare il tampone per togliermi lo sfizio di sapere se ero una dei tanti positivi asintomatici, quegli inquietanti shangai bianchi sono bastati a farmi cambiare idea.
L’esito è arrivato nel tardo pomeriggio. Stavo scrivendo al computer. «Positivo». Era la risposta che immaginavo e che al tempo stesso non avrei mai voluto sentire. Per tutti e tre scattava l’isolamento: nessuno spostamento, nessun contatto con altre persone. È stato come cambiare canale: ci siamo scoperti attori di un film un po’ comico, un po’ drammatico e sicuramente sentimentale di cui non conosciamo il copione. Soprattutto quando papà è stato ricoverato al “Covid hospital” di Schiavonia. Con la polmonite.