Bentornato a casa: l’isolamento nella stanza degli ospiti e il pesce d’aprile sui nostri tamponi
Papà ha varcato la porta di casa come faceva tutte le sere: più stanco, più magro, ma sicuramente felice. Nelle due settimane passate al Covid hospital ha perso quasi 10 chili. Niente abbracci, non si può. Pasti in camera, come in un hotel di lusso. Per noi, due giri di tamponi perché i primi sono stati smarriti. Poi, finalmente, la libertà.
Da lunedì scorso per me la felicità indossa una mascherina e ha gli occhi grandi, liquidi e di quel colore indefinito che non saprei dire se è grigio cobalto o azzurro cenere. È magrolina, la mia felicità, e ha il viso più incavato e più stanco di quando è salita su quell’ambulanza scortata da due infermieri-apicoltori. Mio papà ha varcato la porta di casa con una valigia blu, una borsa di carta e un sacco di plastica pieno di biancheria sudata. Nelle due settimane passate al Covid hospital di Schiavonia ha perso quasi dieci chili.
È entrato da quella porta come faceva tutte le sere. Ad accoglierlo c’era uno striscione: “Bentornato a casa”. Sul cancello le bandierine colorate si dimenavano al vento, come se anche loro volessero protendersi verso di lui. Nessun abbraccio. Non si può. Mi sono infilata la mascherina e sono rimasta lì in piedi, nel soggiorno, a guardarlo. Avrei voluto gettargli le braccia al collo, abbassargli la mascherina e stampargli un bacio sulla guancia. Ma non si può. Lui aveva gli occhi lucidi, mia mamma anche. Sentivo la commozione salire dalla gola su fino agli occhi. Ci saremmo abbracciati tutti e tre stretti stretti, come quando ero piccola. Per dirci che ce l’avevamo fatta ancora una volta. Ma non si può. E comunque l’odissea non è ancora finita. Ulisse è tornato finalmente a Itaca ma non ha ancora sconfitto i Proci.
Non lo dimenticherò mai quello sguardo perché i nostri occhi parlavano in silenzio. Sussurravano quello che il cuore avrebbe voluto urlare. Parole riemerse dagli abissi interiori. Parole potenti come quelle dei bambini o degli innamorati. Parole che ti lasciano senza fiato. «Mi siete mancate, ci sei mancato, sono contento di essere di nuovo a casa, siamo contente di riaverti a casa, vi voglio bene, ti vogliamo bene». Un dialogo fitto fitto, una piena di emozioni che all’improvviso scavalca gli argini e travolge il soggiorno, la casa, la fossa profonda che la preoccupazione aveva scavato in queste due settimane, a volte con una precisione meticolosa, altre volte con badilate feroci. I medici gli hanno raccomandato di non parlare finché non sarà arrivato nella sua stanza perché potrebbe essere ancora contagioso. Ma la voglia di chiedergli come sta supera la paura del virus: chiacchieriamo mentre saliamo le scale e arriviamo nei suoi “appartamenti privati”. Sulla porta della stanza degli ospiti, il cartello ci ricorda che lui non sta tornando da una vacanza, nonostante le valigie. “Pericolo! Papi in quarantena”.
Inizia una nuova routine, l’ennesima in poche settimane. Altra musica, altro ritmo, come se in console ci fosse un deejay impazzito. Non possiamo mangiare insieme, non possiamo condividere gli spazi. Ci affacciamo alla stanza in quarantena con la mascherina. E se tocchiamo qualcosa che ha toccato lui dobbiamo lavarci le mani. La pelle è consumata a forza di essere sfregata con acqua e sapone. Papà è fiacco, ha poche forze e di notte suda, suda tantissimo: un effetto del cortisone che continua a prendere per sfiammare l’infezione polmonare. I pasti glieli portiamo su un vassoio con un coperchio di vetro: pensione completa, come in hotel. O almeno ci proviamo. Né io né mia mamma siamo grandi cuoche: ci alterniamo ai fornelli sperando che prima o poi lui chieda un panino: facile e veloce da preparare. La nuova routine è faticosa ma comunque più rilassante delle montagne russe delle due settimane precedenti. In casa si ride, si scherza, si litiga e ci si abbraccia. Anche se da lontano. Anche se solo con lo sguardo.
Il giorno in cui papà mi chiede un atlante per verificare se si ricorda tutti gli stati del mondo divisi per continente e mette alla prova le mie scarse conoscenze geografiche, mi viene il sospetto che finita la quarantena faremo tutti una gita in Psichiatria. Il giorno in cui invece mi chiede un caffè e si lamenta perché, come al solito, ho messo troppa polvere, capisco che sta guarendo. Ma per l’ufficialità bisogna attendere che due tamponi risultino negativi nel giro di 24-48 ore. I suoi, purtroppo, sono ancora dubbi. I nostri, invece, sono una barzelletta!
Ce li hanno fatti la mattina del 30 marzo, il giorno in cui lui è stato dimesso. L’esito era previsto per il 1° aprile e già questo avrebbe dovuto insospettirci: il pesce era nell’aria. I giorni passano e il responso non arriva. Dopo vari solleciti e uno scambio di telefonate tra il nostro medico di base – una dottoressa tutta d’un pezzo – e il laboratorio analisi di Schiavonia, veniamo a sapere che ci sono stati dei problemi: il laboratorio è a corto di reagenti. Bisogna avere pazienza. Il sospetto rimane. «Chissà dove saranno finiti!?» – commenta mia mamma con un sospiro dopo aver chiuso la telefonata. La risposta arriva il martedì dopo, dall’ufficio Igiene: smarriti. A quel punto quelle smarrite, incredule e ormai esasperate siamo noi. Tutta colpa del pesce d’aprile. Bisogna rifarli, con la promessa che stavolta avranno la priorità: l’esito arriverà nel giro di poche ore.
Li ripetiamo giovedì e stavolta le promesse vengono mantenute. Il verdetto arriva nel pomeriggio: tampone negativo. Niente virus. Non più. Ci convinciamo infatti di averlo preso e di essere guarite perché in effetti abbiamo avuto qualche alterazione di temperatura e malessere. Forse eravamo delle positive quasi asintomatiche. Non lo sapremo mai ma va bene così. Siamo libere. Dopo 28 giorni di quarantena siamo finalmente libere. Libere di andare a fare la spesa, di spostarci per lavoro e di passeggiare in un raggio di 200 metri da casa, che sembrerà una banalità ma se hai passato l’ultimo mese a circumnavigare la casa come un pesce rosso dentro a una boccia, quei 200 metri per te sono l’oceano.
Papà sorride sollevato e dal terrazzo osserva i tulipani appena sbocciati. Sa che non tutti i malati di Covid potranno vederli: per molti i fiori ci saranno, sì, ma soltanto sulla tomba. A lui è andata bene: questo inverno lungo, difficile e pieno di angosce cede finalmente il posto a una primavera fatta di speranze. Ce la faremo, tutti insieme.