Ripartiamo dalla legge elettorale
Nelle ultime settimane ho partecipato a numerosi dibattiti organizzati da vicariati, parrocchie, associazioni nel territorio. Ovunque ho incontrato grande partecipazione, un pubblico preparato e “armatosi” di domande intelligenti, un clima di attenzione e passione civile in chi ha votato con la testa e non “di pancia”. Questo, a prescindere dal giudizio che ciascuno di noi può dare del risultato, è un patrimonio che rimane e che tutti dovremmo fare in modo che non vada disperso. Perché sul merito della riforma era bene dividersi, ma il futuro del paese chiede oggi uno sforzo corale per affrontare i difficili mesi che ci attendono.
Nel numero in edicola e in parrocchia nei prossimi giorni tre pagine dedicate al voto del 4 dicembre con analisi, scenari e la voce dei protagonisti.
Nelle ultime settimane ho partecipato a numerosi dibattiti organizzati da vicariati, parrocchie, associazioni nel territorio.
Ovunque ho incontrato grande partecipazione, un pubblico preparato e “armatosi” di domande intelligenti, un clima di attenzione e passione civile in chi ha votato con la testa e non “di pancia”. Questo, a prescindere dal giudizio che ciascuno di noi può dare del risultato, è un patrimonio che rimane e che tutti dovremmo fare in modo che non vada disperso. Perché sul merito della riforma era bene dividersi, ma il futuro del paese chiede oggi uno sforzo corale per affrontare i difficili mesi che ci attendono.
Al netto di quanti hanno votato non sulla costituzione ma per affossare il governo Renzi – detto per inciso, dall'Ulivo di Prodi a oggi sono vent'anni che i premier di centrosinistra cadono “grazie” ai voti della sinistra, fuori e soprattutto dentro il Pd... – trent'anni di discussioni e commissioni parlamentari stanno a testimoniare la consapevolezza che una riforma delle istituzioni italiane si è fatta col tempo necessaria. E la bocciatura di “questa” riforma, così come avvenne dieci anni fa per quella proposta dal centrodestra, non elimina il problema. Il quesito che ci si pone di fronte, allora, è capire di “quale” riforma ha bisogno l'Italia. Ripensando a quelle serate, mi pare che vi siano alcuni punti che meriterebbero di essere ripresi per alimentare la riflessione e guardare, se non a un nuovo tentativo di riforma costituzionale, perlomeno a una riforma del sistema politico.
Un primo grande argomento di discussione è stato quello che attiene alle regole e alla qualità della classe dirigente.
Il fronte del sì ha insistito con forza sul primo aspetto: è vero che le regole non sono tutto, ma le buone regole aiutano la buona politica e favoriscono in particolare la selezione di una buona classe politica.
Il fronte del no ha insistito con forza sul secondo aspetto: è vero che le regole sono importanti, ma il passato ci insegna che con quelle attuali il parlamento ha saputo dare all'Italia leggi esemplari e attraversare stagioni delicatissime come all'epoca del terrorismo o dell'entrata in Europa.
Ora, è di tutta evidenza che non siamo di fronte a un'alternativa ma alle due facce della stessa medaglia. Entrambe le cose sono vere. E visto che si è deciso di non toccare le regole, possiamo però tutti – e in particolare chi ha scelto il no – impegnarci perché i meccanismi di selezione della classe dirigente e la vita parlamentare ritrovino una maggiore dignità.
Un secondo aspetto che molto ha appassionato le platee è stato il meccanismo di nomina del Senato.
Il fronte del sì ha insistito sulla portata epocale di una camera espressione delle regioni e delle autonomie locali.
Il fronte del no ha messo sotto accusa lo “scippo” del voto agli elettori.
Anche qui, pur divergendo nelle soluzioni, c'è un elemento che accomuna tutti, ed è la consapevolezza che oggi come oggi quasi nessuno sarebbe in grado di dire chi siano i “suoi” senatori di riferimento. Ristabilire un rapporto diretto e forte tra eletti ed elettori, che costringa i primi a “rendere conto” delle loro scelte ai secondi, al territorio – e non solo al proprio segretario di partito – ritorna dunque come un'urgenza imprescindibile.
Un terzo elemento, infine, suscita evidente passione nei cittadini, ed è quello dei costi della politica.
Il fronte del sì ha decantato i risparmi che ne sarebbero venuti. Il fronte del no li ha sminuiti a poco più di briciole.
Anche sotto questo punto di vista, dal voto è giunto un chiaro monito a tutti gli schieramenti: se milioni di elettori hanno utilizzato il referendum per sfogare la propria rabbia per una crisi che non passa e per condizioni di vita sempre più precarie, è anche perché in questi anni al progressivo impoverimento degli italiani ha fatto da contraltare un ceto politico che ha conservato gran parte dei suoi privilegi e delle sue prebende.
Sicuramente altri aspetti hanno pesato sul voto. Ma questi tre – meccanismi di selezione della classe dirigente, rapporto eletti-elettori, costi della politica – sono i primi a cui applicarsi. Da dove iniziare? Un terreno ideale c'è già, ed è la riscrittura della legge elettorale.
Abbiamo un Italicum pensato per un sistema monocamerale e in attesa di pronuncia della corte costituzionale; un Porcellum già pesantemente emendato dai giudici per il Senato.
Pensare di andare al voto in queste condizioni, col rischio di partorire un parlamento senza uno straccio di maggioranza possibile, sarebbe da irresponsabili. Pensare di ripresentarsi agli italiani senza mettere mano al tema del ceto politico e dei suoi costi, rischia di trasformare l'onda di protesta in un maremoto che tutto travolge. Non basta gridare al populismo, se a questo divario tra il paese reale e il palazzo non si ha il coraggio di porre rimedio.