Niente obiettori al concorso per ginecologi? Il vero problema è la prevenzione
L’Asl del Lazio ha recentemente bandito un concorso per due ginecologi non obiettori. Sul merito della questione, vale a dire l’interpretazione della legge, i pareri sono legittimamente discordi. Ma dovrebbe essere chiaro a tutti, come punto di partenza, che sui due piatti della bilancia non ci stanno contraccezione e aborto, bensì aborto clandestino da una parte e aborto in condizioni sanitarie protette e sicure dall’altra.
L’Asl del Lazio ha recentemente bandito un concorso per due ginecologi non obiettori.
Sono subito intervenuti il ministro della sanità e la Conferenza episcopale italiana che hanno dichiarato: così però si viola la legge. È intervenuto anche l’ordine dei medici di Roma: «Prevedere un concorso soltanto per non obiettori di coscienza ha il significato di discriminazione di chi esercita un diritto sancito dalla bioetica e dalla deontologia medica. Soltanto ragioni superiori potrebbero consentire di superare il diritto fondamentale di invocare legittimamente l’obiezione di coscienza in determinate situazioni e queste ragioni superiori non ci risulta esistano. Infatti non risulta che i servizi di interruzione volontaria di gravidanza, nel rispetto della legislazione, non siano mai stati assicurati nell’azienda sanitaria pubblica. Inoltre, ove si verificassero difficoltà ad assicurare il servizio in questione si avrebbero numerosi strumenti normativi di carattere flessibile, che, utilizzati, potrebbero tranquillamente superare tali ipotetiche difficoltà».
Il governatore del Lazio Nicola Zingaretti ha spiegato così le sue ragioni: «Nessuna guerra di religione, vogliamo solo garantire un diritto. L’importante è che i radicalismi non si impossessino di questi argomenti».
A dargli man forte ha fatto sentire la sua voce anche Emma Bonino, da sempre schierata per la tutela dei diritti: «Penso che la legge sia molto chiara, le istituzioni devono applicare la legge e garantire il servizio».
E non poteva tacere il cardinal Ruini: «Il mio parere è che si tratta di una forzatura abortista rispetto a quelle che sono la lettera e lo spirito della legge 194, il suo scopo non è per nulla quello di portare chi lo desidera ad abortire, di aprire possibilità in questo senso, semmai essa intende aiutare a non abortire e in questo senso davvero parlerei di prevenzione».
Che l’aborto sia ancora una realtà dolorosa e relativamente diffusa anche nel nostro paese non vi sono dubbi. Nessuno d’altra parte mette in dubbio che le disposizioni di legge attualmente in vigore, a prescindere dal giudizio di merito, abbiano contribuito a ridurre il numero degli aborti clandestini. E nessuno ignora che vi sono ancora tante, troppe donne, soprattutto povere e immigrate dai paesi dell’Est o dell’Africa, che continuano ad abortire clandestinamente.
Tre dati di fatto che richiederebbero di instaurare un sereno dibattito tra persone capaci di guardare a occhi aperti la realtà, ma soprattutto di concordare una linea di intervento capace di limitare da una parte i casi di aborto, dall’altra di assicurare alle donne una tutela sanitaria adeguata e quella solidarietà che è indispensabile in un momento traumatico della vita.
Questo vorrebbe la ragione: un confronto serio e pacato in cui ogni forza politica e ideale potesse misurarsi col massimo senso di responsabilità recando l’apporto di idee, di conoscenze, di valutazioni, che le sono proprie. Il modo in cui si sviluppa il dibattito è invece di segno opposto: risente del clima di tensione esistente nel paese e al tempo stesso sembra finalizzato non tanto all’approfondimento del tema quanto all’inasprimento della tensione.
Sul merito della questione, vale a dire l’interpretazione della legge, i pareri sono legittimamente discordi.
Viene però da chiedersi se abbia un senso appellarsi all’obiezione di coscienza per rivendicare il diritto a un posto di lavoro a cui si è rinunciato per principio in partenza.
Capisco che vi possano essere interpretazioni diverse della legge. Sono anche d’accordo con quanti ritengono che l’obiezione di coscienza vada tutelata. Ma non ho dubbi sul fatto che legge sia imperniata non sul diritto di aborto, ma sulla prevenzione dell’aborto.
Stando così le cose il vero problema è come prevenire l’aborto.
Le forme di prevenzione sono molte. La prima e più fondamentale ha un nome, si chiama responsabilità, o forse meglio, educazione alla responsabilità: non si mettono al mondo figli che non si desiderano o non si è in grado di mantenere e di educare. Una seconda e non meno fondamentale forma di prevenzione impegna tutti a diffondere la conoscenza e la pratica dei metodi naturali e artificiali di regolazione delle nascite. La terza forma di prevenzione è quanto prevede la legge, il cui scopo principale è aiutare le donne a non ricorrere all’aborto come metodo di regolazione delle nascite.
Conosco l’obiezione che viene mossa in proposito. È pesante e mette in discussione la liceità dell’interruzione volontaria della gravidanza, considerata un prezzo troppo alto per avere in cambio la disponibilità della donna a conoscere e praticare metodi di regolazione delle nascite che non siano l’aborto e men che meno l’aborto clandestino.
In effetti non c’è proporzione tra contraccezione e aborto, e la donna è la prima a saperlo. Sembra questo in ogni caso il vero problema.
Sui due piatti della bilancia del legislatore, e quindi anche del medico non obiettore, non ci stanno contraccezione e aborto. Nessuno penso metta in dubbio l’assoluta sproporzione che c’è tra l’una e l’altro. La contraccezione interviene su una funzione del corpo della donna, l’aborto sulla vita del feto, e dunque di un essere umano, di una persona, oltretutto innocente e indifesa. Ma non sembra questa la logica che innerva la legge.
Sui due piatti della bilancia non ci stanno contraccezione e aborto, bensì aborto clandestino da una parte e aborto in condizioni sanitarie protette e sicure dall’altra. Due mali certo, e anche molto gravi, ma il secondo è minore rispetto al primo. Se non si comprende questo la contrapposizione continuerà all’infinito perché ognuno ha buone ragioni da rivendicare, ma da punti di vista diversi.