Dopo la morte di Eleonora Bottaro. Siamo liberi di non curarci?
Il caso di Eleonora Bottaro, com’era da attendersi, ha diviso l’Italia in due. Da una parte quanti accusano i genitori di aver fatto la scelta sbagliata, dall’altra chi sostiene la loro scelta di affidarsi alla medicina alternativa. Il dibattito sembra destinato a far discutere ancora a lungo. Una cosa è certa: di fronte alla sofferenza, l’ospedale non è più sufficiente. Ai progressi della scienza non si è infatti affiancata una maggiore umanizzazione della condizione del malato.
Il caso di Eleonora Bottaro, com’era da attendersi, ha diviso l’Italia in due.
Da una parte quanti accusano i genitori di aver fatto la scelta sbagliata, dall’altra chi sostiene la loro scelta di affidarsi alla medicina alternativa.
Il dibattito sembra destinato a far discutere ancora a lungo. E non solo dal punto di vista medico, ma anche da un punto di vista giuridico, etico, e perché no?, anche religioso e pastorale.
Il parroco infatti nell’omelia del funerale, secondo quanto riportano i giornali, avrebbe sì difeso i genitori da attacchi ingenerosi e sconsiderati (accusati di essere degli “assassini”), ma non avrebbe chiarito adeguatamente come, sia pure in buona fede, la famiglia abbia fatto la scelta sbagliata.
Sono spesso casi concreti come questo a scrivere l’agenda bioetica di un paese.
In Italia la discussione sulla libertà di cura e sulle cosiddette cure compassionevoli ha assunto particolare rilievo a partire da fatti noti al pubblico come i casi Di Bella e Stamina.
Criteri etici per la riflessione
Pur non potendo non tener conto di quanto è avvenuto, non s’intende qui entrare nel merito dei diversi aspetti di questa complessa vicenda.
S’intende piuttosto prendere in esame solo alcuni aspetti bioetici relativi al caso: da una parte la libertà di cura dei genitori e dall’altra le cosiddette cure compassionevoli, con l’obiettivo di individuare i problemi ed enucleare, in questo ambito particolarmente delicato, criteri etici da porre all’attenzione delle istituzioni, delle professioni sanitarie e, più in generale, del dibattito pubblico.
Un primo criterio è l’imparzialità.
Al riguardo è bene ricordare che la medicina, come ogni altra attività scientifica, nella misura in cui è incentrata sulla verificabilità empirica procede in modo oggettivo, imparziale. Si muove quindi già su un terreno etico.
L’etica infatti non cala le sue norme dall’alto di un’autorità rivelata o costituita, ma partire dall’analisi della realtà, delle conoscenze acquisite, dei dati di fatto che vengono forniti dalle scienze empiriche. Oltre che, si capisce, a partire dall’esperienza dei valori che innervano culture e vissuti delle persone, pazienti e medici, che fanno una scelta piuttosto che un’altra.
Sotto questo profilo non è raro il caso che si diano conflitti di valore e che persone in perfetta buona fede facciano scelte eticamente sbagliate.
Il secondo criterio è la proporzionalità tra valori e disvalori, danni e benefici, a partire dalle conseguenze previste o prevedibili di una determinata azione, che nel caso funge da mezzo per raggiungere un determinato fine.
Anche qui sarà bene richiamare una distinzione tra valori morali, che dipendono solo dalla nostra volontà (libertà di coscienza) e valori non morali (vita, salute, ricchezza, bellezza, serenità ecc.) che dipendono anche da altri fattori.
Per rimanere al caso illustrato, altro è l’atteggiamento buono dei genitori di Eleonora nel rivendicare libertà di cura della figlia minorenne, altro il loro comportamento sbagliato di sottoporla a cure sproporzionate, non adeguate alla gravità della malattia.
Determinate cure o terapie non convenzionali (omeopatia, ipnosi, agopuntura, yoga, chiropratica, e altre) oggi non vengono ritenute proporzionate alla cura del cancro. Il che non significa che siano inutili o non possano venire integrate nella cura di determinate malattie. Ciò che la medicina convenzionale esclude non sono le cure integrative, bensì quelle alternative, che rifiutano ogni intervento di tipo chirurgico, radiologico, ormonale.
Il vero problema è che di fronte alla sofferenza di tante persone l’ospedale non è più sufficiente.
Il diritto alla cura è un diritto fondamentale che si estende lungo tutto l’arco dell’esistenza di una persona e permane inalterato durante tutte le fasi della malattia, non esclusa quella terminale.
Esistono certo malati che possono essere giudicati clinicamente inguaribili, ma non sono malati incurabili.
Questo principio, che deve essere posto come criterio-guida al centro dell’attività sanitaria, rischia talora di essere dimenticato.
I progressi della scienza medica, soprattutto in campo tecnologico, non coincidono sempre di fatto con una maggiore umanizzazione della condizione del malato.